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News dal blog della Società italiana di Diritto internazionale e di Diritto dell’Unione europea

News dal blog della Società italiana di Diritto internazionale e di Diritto dell’Unione europea

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diritto dell'Unione europea a cura di Monica Spatti
Come proteggere la Corte penale internazionale dalle sanzioni statunitensi: la possibilità per l’Unione europea di ricorrere al regolamento di blocco 

Monica Spatti (UniversitĂ  Cattolica del Sacro Cuore di Milano)

1. Introduzione

Lo scorso 6 febbraio, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha firmato un ordine esecutivo che impone sanzioni a carico della Corte penale internazionale (CPI), dei suoi giudici e funzionari, dei loro stretti familiari, nonchĂŠ di tutti coloro i quali con essa collaborano. Le sanzioni vanno dal divieto di ingresso nel territorio statunitense, al blocco dei beni delle persone indicate dallo stesso Presidente (l’Allegato menziona l’attuale Procuratore della Corte, Karim Khan) e che potranno essere in futuro individuate dal Segretario di Stato. 

Come spesso accade, le sanzioni statunitensi hanno la capacitĂ  di imporsi non solo sui soggetti stabiliti negli Stati Uniti (cd. sanzioni primarie), ma anche sui soggetti situati in altri Paesi (cd. sanzioni secondarie), finendo cosĂŹ per avere effetti extraterritoriali (sul punto v. Viterbo, p. 371 ss.). Le sanzioni secondarie, la cui legittimitĂ  sul piano internazionale è fortemente dubbia (v. Sossai, p. 70 s.; Beaucillon, p. 23; Ruys e Ryngaert, p. 16 ss.), hanno il chiaro obiettivo di forzare gli operatori commerciali stabiliti al di fuori degli USA a scegliere tra interrompere le relazioni commerciali con i soggetti colpiti dalle sanzioni o rinunciare ad accedere al mercato statunitense. Per tale ragione, volendo esemplificare, le istituzioni finanziarie potrebbero rifiutarsi di collaborare con la CPI per timore di ritorsioni da parte degli Stati Uniti, impedendone cosĂŹ l’accesso ai servizi bancari essenziali. Analogamente, le aziende che forniscono servizi informatici e tecnologici fondamentali per la raccolta e la gestione delle prove potrebbero decidere di interrompere ogni rapporto con la Corte, privandola di strumenti essenziali per il suo operato. Le sanzioni statunitensi hanno, dunque, la capacitĂ  di compromettere gravemente il funzionamento della Corte. 

Le sanzioni sono una risposta alle indagini della CPI su presunti crimini che coinvolgono personale statunitense e organi di vertice di alcuni paesi alleati, tra cui Israele; indagini che l’amministrazione Trump considera prive di una base legittima. Non è la prima volta che gli Stati Uniti adottano sanzioni nei confronti della Corte. GiĂ  durante la precedente amministrazione, nel giugno 2020, il Presidente Trump aveva adottato un analogo ordine esecutivo che imponeva sanzioni economiche e restrizioni di viaggio nei confronti della Procuratrice, Fatou Bensouda, e di altri funzionari della Corte. Allora il provvedimento era stato adottato in reazione all’apertura delle indagini della procuratrice per i gravi crimini commessi in Afghanistan, che potevano coinvolgere anche militari statunitensi e agenti della CIA (in argomento v. Meloni).

La recente decisione ha suscitato un’ondata di dissenso a livello globale. In particolare, 79 Stati parti dello Statuto di Roma hanno rilasciato una dichiarazione congiunta riaffermando il loro ÂŤcontinued and unwavering support for the independence, impartiality, and integrity of the ICCÂť, evidenziando come le sanzioni siano in grado di paralizzare l’attivitĂ  della Corte, aumentando il rischio di impunitĂ  per crimini gravi, minando lo stato di diritto e compromettendo la sicurezza globale. Anche sul versante europeo le reazioni non si sono fatte attendere: la Presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, l’Alta rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Kaja Kallas, cosĂŹ come il Presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, hanno prontamente rilasciato dichiarazioni di sostegno all’attivitĂ  della Corte (v. quiqui e qui). 

C’è da chiedersi cosa concretamente l’Unione europea possa fare per dare consistenza a queste parole. La Presidente della Corte penale internazionale, la giudice Tomoko Akane, in visita a Bruxelles – insieme al primo Vice-Presidente, il giudice Rosario Salvatore Aitala –, dopo aver espresso apprezzamento per il supporto dell’Unione europea alla Corte, ha esortato l’Unione a prendere misure concrete e rapide per proteggere la Corte; tra queste, è stato invocato il cd. regolamento di blocco (v. qui). Analogamente, anche alcuni euro-parlamentari hanno sollecitato la Commissione a verificare la possibilitĂ  di estendere l’applicazione di questo regolamento a salvaguardia della Corte (v. qui).

Il presente contributo mira, dunque, a verificare se lo strumento di blocco, introdotto con il regolamento del Consiglio (CE) n. 2271/96, per arginare gli effetti extraterritoriali delle sanzioni secondarie imposte da Stati terzi, possa rivelarsi uno strumento efficace per preservare l’attivitĂ  della Corte, proteggere i suoi funzionari e gli operatori europei che con essa collaborano. A tal fine si intende anzitutto individuare sommariamente gli aspetti chiave del regolamento (par. 2), per poi appurare le sfide dell’eventuale applicazione dello strumento al caso di specie (par. 3).

2. Ratio e contenuto del regolamento di blocco

Il regolamento n. 2271/96 è stato adottato in risposta alle disposizioni statunitensi che nel 1996 avevano imposto sanzioni nei confronti di Cuba, Iran e Libia, impedendo di effettuare transazioni commerciali da e verso quei Paesi, pena il pagamento di sanzioni pecuniare elevatissime o, addirittura, la privazione della libertĂ  personale. L’atto è stato poi modificato una prima volta con il regolamento (UE) n. 37/2014 al fine di adeguare alcune disposizioni al nuovo quadro di diritto primario introdotto con il Trattato di Lisbona, e una seconda volta con il regolamento delegato (UE) 2018/1100 della Commissione, con cui, in particolare, è stato aggiornato l’Allegato, al fine di tenere conto delle sanzioni adottate dagli USA contro l’Iran nel 2012. L’Allegato elenca gli atti legislativi e i regolamenti statunitensi nei confronti dei quali trova applicazione il regolamento di blocco, precisando per ciascuno i potenziali pregiudizi per gli interessi dell’Unione.

Il regolamento di blocco è motivato dal fatto che l’Unione europea considera le sanzioni aventi effetti extraterritoriali come contrarie al diritto internazionale (v. considerando 3 del regolamento in oggetto; relazione della Commissione relativa all’art. 7, lett. a, del regolamento) e come ostacoli alla realizzazione degli obiettivi che la ComunitĂ , ora Unione, si pone. Esso menziona, in particolare: lo sviluppo armonioso del commercio internazionale, la graduale soppressione alle restrizioni agli scambi internazionali, nonchĂŠ la circolazione di capitali tra Stati membri e paesi terzi e l’eliminazione delle restrizioni agli investimenti. Al fine di mitigare gli effetti extraterritoriali delle sanzioni USA, il regolamento di blocco impone, dunque, alle persone fisiche e giuridiche stabilite nell’Unione di non dare seguito agli atti normativi extraterritoriali statunitensi elencati nell’Allegato, cosĂŹ come a decisioni, sentenze o lodi arbitrali su questi fondati (artt. 5, comma 1 e 11). 

Il regolamento di blocco mira al contempo a proteggere gli operatori economici europei, prevedendo delle forme di tutela a loro favore: anzitutto, un diritto al risarcimento del danno per chi, nel dare attuazione al regolamento europeo, subisca un pregiudizio (art. 6); nonchĂŠ la possibilitĂ  di ottenere un’esenzione nel caso in cui l’inosservanza delle sanzioni statunitensi provochi un danno grave agli interessi dell’operatore economico o dell’Unione stessa (art. 5, comma 2). È prevista anche la possibilitĂ  di sanzionare chi non dovesse ad esso adeguarsi. Spetta agli Stati membri il compito di determinare se vi è stata una violazione del regolamento di blocco e che tipo di sanzione eventualmente applicare; il regolamento si limita a stabilire che deve trattarsi di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive (art. 9). Gli Stati membri hanno un ruolo fondamentale nel concedere eventuali autorizzazioni di deroga al regolamento di blocco: per quanto la decisione spetti alla Commissione, essa deve prima ottenere l’approvazione degli Stati membri rappresentati in un apposito Comitato che assiste la Commissione (art. 7, lett. b, e art. 8).

3. Gli ostacoli all’uso del regolamento di blocco per mitigare gli effetti delle sanzioni contro la CPI

Allo stato attuale il regolamento di blocco non può essere applicato nei confronti delle sanzioni USA contro la Corte penale internazionale. PerchĂŠ ciò avvenga Ă¨ necessaria una modifica dell’Allegato del regolamento, finalizzata ad aggiungervi le disposizioni statunitensi che sanzionano la Corte. L’art. 1, comma 2, attribuisce questo potere alla Commissione secondo le condizioni di cui all’art. 11 bis. In particolare, la Commissione può adottare un atto delegato, che deve essere contestualmente notificato al Parlamento europeo e al Consiglio (par. 4). Esso entra in vigore entro due mesi dalla notifica, a meno che uno dei due suddetti organi sollevi un’obiezione (par. 5). Non è scontato che tale modifica possa effettivamente essere introdotta, dal momento che il Consiglio potrebbe avvalersi del proprio potere di opposizione: piĂš di uno Stato membro, infatti, non sembra intenzionato a sostenere la Corte come ci si aspetterebbe. È indicativo, in tal senso, che non tutti gli Stati membri dell’Unione europea abbiano sottoscritto la dichiarazione congiunta di sostegno alla CPI adottata all’indomani dell’introduzione delle sanzioni statunitensi: Italia, Repubblica Ceca e Ungheria non figurano tra i firmatari. Quest’ultima, in particolare, ha assunto una posizione apertamente critica nei confronti della Corte: il Primo Ministro ungherese, Viktor OrbĂĄn ha infatti affermato che ÂŤit is time for Hungary to reassess its position in an international organization that is under US sanctionsÂť, paventando cosĂŹ – e non è la prima volta – la possibilitĂ  che l’Ungheria lasci la Corte (v. qui).

AldilĂ  del dibattito sugli ostacoli politici, occorre segnalare come finora l’applicazione del regolamento di blocco abbia fatto emergere alcuni problemi strutturali, di cui anche la Commissione è pienamente consapevole, tanto che nel 2021 aveva iniziato un processo di revisione dello strumento (v. Commission staff working document, SWD(2021) 371 final, p. 6) prospettando una proposta di modifica nella seconda metĂ  del 2022, che però non è stata presentata.

Uno dei principali problemi del regolamento risiede nella limitata capacità di proteggere gli operatori economici europei. La stessa comunità imprenditoriale europea, che ha risposto alla consultazione della Commissione nell’ambito della procedura di revisione dell’atto, ha denunciato la mancanza di protezione per le aziende europee che si sono trovate nel mezzo del fuoco incrociato tra USA e UE (v. Summary report of the open public consultation on the review of the Blocking Statute, p. 2), soprattutto per quanto riguarda il settore bancario che pare essere quello più colpito. Il principale strumento che il regolamento ha concepito per proteggere gli operatori europei, ossia la possibilità di ottenere una riparazione dei danni subiti, non ha funzionato adeguatamente (v. Svetlicinii, p. 604). L’art. 6 prevede che il risarcimento debba essere ottenuto dalla persona o dall’ente che ha causato il danno, e può avvenire anche attraverso il sequestro e la vendita dei beni di tale soggetto. Chiaramente ciò può funzionare se si tratta di un partner commerciale contro cui è possibile promuovere un’azione giudiziaria davanti a un tribunale per ottenere le suddette forme di riparazione. Questo meccanismo di riparazione non può invece funzionare rispetto alle autorità statunitensi che non possono essere chiamate in giudizio, stante il principio di immunità dello Stato (v. Cellerino, p. 566; Ruys e Ryngaert, p. 95 ss.).

L’evidenza empirica mostra che, in numerosi casi, le aziende europee hanno preferito dare seguito alle sanzioni USA, interrompendo le relazioni commerciali con i soggetti destinatari delle sanzioni. Tale comportamento sembra riflettere un timore maggiore per le possibili ritorsioni da parte degli Stati Uniti rispetto a quelle europee, verosimilmente in ragione del carattere piĂš stringente e incisivo delle sanzioni americane (v. Lionello, p. 496 ss.; Ruys e Ryngaert, p. 92). A questo riguardo si segnala, infatti, la scarsa attitudine degli Stati membri a penalizzare le loro imprese che non si adeguano al regolamento (v. K. Meloni, p. 504; Svetlicinii, p. 600 ss.). Tanto che alcuni non si sono neppure dotati di una legislazione volta a stabilire penalitĂ  per le violazioni del regolamento di blocco (v. Jennison, p. 185).

Un ulteriore profilo del regolamento che sembra non operare in modo pienamente efficace riguarda l’obbligo di notifica previsto dall’art. 2. Il meccanismo attuale prevede che siano gli stessi operatori economici, qualora ritengano di essere lesi da una sanzione statunitense, a doverne dare comunicazione alla Commissione. Tuttavia, a seguito di tale notifica gli l’operatori non ricevono alcuna indicazione circa l’eventuale riconducibilitĂ  della propria situazione all’ambito di applicazione delle sanzioni statunitensi. La Commissione ha, infatti, chiarito che la segnalazione non deve servire a ottenere un parere (v. nota di orientamento, punto 16). L’unica conseguenza della notifica è che la Commissione a sua volta informerĂ  le autoritĂ  statali competenti che potranno cosĂŹ inserire l’operatore economico nella lista di controllo nazionale. Con questa auto-segnalazione l’operatore si espone dunque a un maggior controllo (v. Ruys e Ryngaert, p. 82 s.), senza peraltro avere la sicurezza di un adeguato meccanismo di risarcimento del danno. Come rilevato dallo Special Rapporteur on the negative impact of unilateral coercive measures on the enjoyment of human rightsdell’ONU, le imprese europee hanno piĂš spesso preferito non ricorrere al sistema di rimedi predisposti dal regolamento di blocco, optando piĂš frequentemente per un accordo transattivo con le autoritĂ  statunitensi (v. qui, par. 54).

4. Considerazioni conclusive

Non è dato sapere se il ricorso al regolamento di blocco sia effettivamente al vaglio delle istituzioni europee. È probabile che lo sia perchĂŠ il governo olandese ne ha chiesto l’attivazione (v. qui). Sulla base dell’Accordo di sede i Paesi Bassi hanno la responsabilitĂ  di garantire l’indipendenza operativa della Corte e dunque, l’obbligo di collaborare con essa a tal fine. Pertanto, non possono permettere che le banche olandesi interrompano la collaborazione con la CPI. Il ministro della giustizia olandese a questo proposito ha dichiarato che i Paesi Bassi non sono in grado di proteggere da soli le banche, ed è dunque necessario un intervento a livello europeo.

La Commissione europea, sollecitata in merito dell’applicazione del regolamento di blocco da alcuni europarlamentari – per mezzo di un’interrogazione prioritaria con richiesta di risposta scritta –, ha dato seguito alla richiesta attraverso l’Alta rappresentante per gli affari esteri. Lo scorso 10 febbraio Kaja Kallas, dopo aver espresso la preoccupazione della Commissione per gli effetti che le sanzioni statunitensi potrebbero avere sul lavoro della CPI, ha ribadito la volontà di difendere l’azione della Corte; l’Alta rappresentante non ha però fatto menzione del regolamento di blocco, limitandosi a dire che la Commissione «is therefore carefully assessing the situation and preparing for all scenarios» (v. qui). La Commissione ha dunque optato per un atteggiamento attendista. Probabilmente si attende di vedere se oltre al Procuratore, Karim Khan, alla lista verranno aggiunti altri nomi o, forse, il tema è entrato nel calderone delle tensioni UE-USA, insieme alle questioni dei dazi e del sostegno all’Ucraina.

Si consideri che il regolamento di blocco è stato adottato con un chiaro intento deterrente: si riteneva, infatti, che potesse favorire una maggiore moderazione da parte statunitense nell’approvazione di nuove sanzioni e nell’applicazione di quelle esistenti (v. Davidson, p. 1435; Ruys e Ryngaert, p. 82 s.). Tuttavia, nell’attuale fase geopolitica risulta meno evidente che il regolamento possa ancora esercitare un’effettiva capacità deterrente. Qualora si decidesse di attivare il regolamento di blocco, sarebbe quantomeno necessario individuare forme aggiuntive di tutela per gli operatori che collaborano con la Corte. Contestualmente, potrebbe risultare opportuno limitare il numero degli operatori coinvolti; ad esempio, in ambito bancario, l’esposizione finanziaria potrebbe essere concentrata in un unico istituto. Ciò permetterebbe alla Corte di sopravvivere in attesa di tempi migliori.

Data articolo:Wed, 16 Apr 2025 17:00:00 +0000
diritto dell'Unione europea a cura di Luigi Sammartino
“Tanks, a lot!”: la proposta European Defence Readiness 2030 alla luce del diritto internazionale

Luigi Sammartino, UniversitĂ  degli Studi di Milano

Era nell’aria da tempo, e alla fine si è concretizzato: lo scorso 28 marzo, la Commissione Europea ha pubblicato il Libro Bianco sulla spesa militare, denominato European Defence Readiness 2030 (in precedenza ReArm Europe). Nel documento, di appena 22 pagine, vengono indicati gli obiettivi della military expenditure comune ai 27 Stati membri per i prossimi 5 anni.

Molti dubbi sono stati sollevati da questo documento, non solo a livello economico e politico, ma anche giuridico (per una prima disamina, si veda Paul Dermine, Funding Europe’s Defence. A first Take on Commission’s ReArm Europe Plan, Verfassungsblog, 5 March 2025; Alberto Vecchio, The White Paper Within the Institutional Constraints: The EU Short-Term Defence Policy “Readiness 2030”, Verfassungsblog, 28 March 2025). Infatti, accanto all’assicurazione che l’aumento della spesa militare (fino al 4% del PIL) potrà beneficiare di una clausola di salvaguardia per lo sforamento del deficit di bilancio (come prevista dall’art. 26 del reg. (UE) 2024/1263), la questione diviene rilevante principalmente alla luce degli obblighi internazionali che verrebbero incisi da una simile misura, ed in particolare i principi sulla sostenibilità economica, attuale e per le future generazioni, su cui l’UE ha puntato nella precedente legislatura (qui una raccolta degli atti giuridici adottati). Inoltre, c’è da considerare se e in che misura tali misure possano incidere i limiti delineati nel diritto internazionale sulla spesa e la trasparenza sull’acquisto di armamenti.

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All’interno del Libro Bianco, molte delle questioni giuridiche rilevanti si pongono nel par. 7 del documento. Vengono qui descritti i cinque pilastri su cui si baserà l’iniziativa:

1) La creazione di un nuovo strumento finanziario dedicato. L’iniziativa è quella di proporre, in base all’art. 122 TFUE, un regolamento che disciplini l’allocazione, il prestito e la disciplina generale dei fondi reperibili tramite un nuovo strumento finanziario, il Security and Action For Europe (SAFE), che va ad affiancare altra disciplina derivata (in particolare, quelle contenuta ne reg. (UE) 2021/697 sul Fondo europeo per la difesa). Tale strumento sarà dedicato principalmente al procurement (appalto) comune per l’acquisizione e lo sviluppo di materiali d’armamento e di difesa. La condizione per poter usufruire di tale strumento è che il progetto sia predisposto tra due Stati: uno membro UE (che riceverà la dotazione finanziaria) e uno Stato eligibile tra Stati appartenenti all’European Free Trade Area (EFTA) o l’Ucraina, sulla base delle esigenze militari individuate dal Consiglio UE con deliberazione del 6 marzo 2025.

2) La possibilità di ricorrere a clausole di salvaguardia circa il deficit di bilancio. L’accesso a un simile strumento finanziario, con una dotazione di circa 150 miliardi di euro da investire ogni anno, potrebbe avere ripercussioni anche sugli obblighi inclusi nel Patto europeo di Stabilità e Crescita, relativamente al tetto massimo di deficit che uno Stato membro possa fare. In tal senso, la proposta della Commissione prevede di ricorrere alle clausole di salvaguardia per le spese militari considerevoli. Questo aspetto era stato temuto di più, dato che l’obbligo del Patto di stabilità non sembra ammettere deroghe per spese militari, e al contempo non sembra essere chiaro quali implicazioni tale sforamento possa avere sulle economie nazionali.

3) Modifiche, da parte della Banca Europea per gli Investimenti, ai criteri di eleggibilità dei programmi da finanziare. È previsto che la BEI possa allocare ulteriori risorse prevedendo un’estensione dell’ammissibilità al finanziamento per progetti concernenti la difesa comune, tramite il supporto del Piano d’Azione industriale per la sicurezza e la difesa.

4) Mobilitazione del capitale privato per supportare il finanziamento dei progetti della difesa. Questo aspetto diviene rilevante soprattutto per evitare di dipendere dagli investimenti nel settore della difesa da parte delle grandi industrie statunitensi (che finanziano per circa il 60% i vari programmi, e che ora si trovano in difficoltà sul piano della supply chain a causa dei dazi reciproci imposti dall’amministrazione Trump e dalla Commissione UE) e di quelle britanniche (la cui disciplina è sempre soggetta a quanto stabilito nell’Accordo Brexit). In tal senso, la Commissione propone una riforma anche del reg. 2019/2088 del Parlamento e Consiglio del 27 novembre 2019 relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari (c.d. SFDR), dove si prevede un generico chiarimento circa la necessaria correlazione tra l’informativa societaria degli investimenti della difesa e gli obiettivi dello sviluppo sostenibile che devono essere perseguiti.

5) PrevedibilitĂ  finanziaria. La proposta, ovviamente, cercherĂ  di considerare anche le future esigenze di finanziamento dei progetti.

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Spazio nel Libro Bianco è dedicato anche alla cooperazione internazionale. In particolare, emergono considerazioni circa la cooperazione militare e di difesa con diversi alleati, tra cui la NATO (in cui sono presenti 23 Stati membri UE), la quale ha progressivamente invitato ad aumentare la spesa militare fino al 4% del PIL (a partire dal Summit di Cardiff del 2014).

A livello bilaterale, la cooperazione interessa diversi partner commerciali e strategici dell’UE (Regno Unito, Turchia, Norvegia, gli Stati parte della European Economic Area – EEA e i candidati all’adesione all’UE, tra cui Georgia, Moldavia e Ucraina e ora anche Armenia), oltre a partner extracontinentali come Canada, Australia, Nuova Zelanda, India, Giappone e Corea del Sud. In tutti questi casi, l’impegno è quello di rafforzare il dialogo strategico e di permettere sia la partecipazione a progetti finanziati col SAFE (soprattutto nel caso di Islanda, Norvegia, Canada, Giappone e Corea del Sud), sia di aprire e rafforzare nuovi canali di commercio e investimento nel settore della difesa (aprendo quindi il mercato interno anche a concorrenti stranieri).

Diverso discorso riguarda gli USA, partner strategici tradizionali e fondamentali nel settore della difesa (come riconosciuto anche da alcuni Stati membri UE e NATO). In tale contesto, l’intenzione statunitense è stata quella di sopperire sempre meno alle esigenze militari degli Stati NATO (già palesata al Summit NATO di Bruxelles del 2018 e ribadita anche recentemente). Tuttavia, tale situazione non sembra aver minato il rinnovo e l’esecuzione dei Memoranda of Understandings in materia di reciprocal defence procurement, volti ad aprire canali di mercato bilaterali per le industrie della difesa degli Stati Uniti e degli Stati parte (tra cui anche l’Italia). In particolare, in questi accordi (e segnatamente quelli con Stati membri UE), viene comunque assicurato il rispetto della normativa comunitaria in materia di appalti della difesa (si veda l’art. II.D del MoU USA-Italia). Ciò implicherebbe che, oltre alla dir. 2009/81/UE in materia di appalti della difesa nel Mercato Interno, anche il futuro regolamento sul SAFE diverrà prevalente rispetto alla disciplina del MoU. Ma dato che non è prevista dal Libro Bianco la possibilità di accedere a simili forme di finanziamento per le imprese statunitensi, le nuove opportunità del mercato della difesa europeo rimarrebbero sostanzialmente precluse alle stesse, provocando anche un possibile effetto discriminatorio. Rimarrebbero invariati (e il Libro Bianco li menziona) il rapporto di cooperazione sulla cybersecurity, la sicurezza marittima e spaziale e le “procurement issues” da discutere, verosimilmente legate non alla fornitura di armamenti in sé, ma di parti e componenti per gli armamenti già acquisiti.

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Alla luce delle prime considerazioni, sembrano emergere alcune implicazioni dal punto di vista del diritto internazionale. Pur essendo un documento programmatico, il Libro Bianco sembra comunque invitare ad agire considerando solo alcuni obblighi giuridici internazionali, non menzionandone altri o solo implicitamente considerandoli (come nel caso dei principi sullo sviluppo sostenibile). Detto della questione degli accordi bilaterali di cooperazione sul mercato della difesa, qui è necessario comprendere anche se vi siano limiti giuridici internazionali sulla military expenditure stessa.

La questione è stata ciclicamente dibattuta a partire dai primi lavori della Società delle Nazioni. Se in un primo momento (coinciso col periodo di maggiore elaborazione normativa che ha portato, fra le altre, alla stipulazione del Protocollo sulle armi chimiche del 1925) l’idea di policy era il disarmo totale stabilita con regole internazionali (J. T. Shotwell and M. Salvin, Lessons on Security and Disarmament from the History of the League of Nations, 1949, p. 10 ss.), in un secondo momento tale impostazione è stata abbandonata in favore di un maggiore controllo sugli armamenti da parte degli Stati stessi (ribadita prima durante i lavori della Commissione sul Disarmo, poi dalla Conferenza del 1932-1937; Shotwell and Salvin, p. 31 ss.). Al contempo, la regolazione della military expenditure è stata prima vagliata come necessaria, poi lasciata alle considerazioni degli Stati in quanto espressione del domain reservé.

Successivamente, nell’ambito delle Nazioni Unite la questione è stata sollevata più volte nell’ambito dell’Assemblea Generale e durante le Sessioni speciali sul disarmo e la non proliferazione. Nella risoluzione 37/95A del 13 dicembre 1982, l’Assemblea ha ribadito la ferma convinzione di voler raggiungere la definizione di un quadro di principi relativi alla riduzione e congelamento dei budget militari degli Stati (par. 1, 3 ss.); al contempo, nella stessa risoluzione afferma la possibilità (e per converso, sottolinea il problema) di allocare diversamente le risorse per la spesa militare a misure di implementazione della tutela dei diritti fondamentali e dello sviluppo economico (par. 2).

Un nuovo capitolo si è aperto, poi, nel contesto della trasparenza sulla spesa militare. Con la creazione del Registro ONU delle armi convenzionali (1991), allo scopo di rendere trasparenti gli acquisti e le cessioni di armamenti tra gli Stati, il dibattito pubblico si è focalizzato maggiormente sul conoscere come l’impiego delle risorse finanziarie di uno Stato venivano impiegate e quanto era effettivamente speso nel settore della difesa. L’idea di base del registro è quella del reporting volontario (già maturato nella ris. 37/95B), basato soprattutto sulla rilevazione di tipi e unità di armamenti costruiti e venduti, quantità degli stessi e costo complessivo, allo scopo di tracciare un quadro statistico ed economico della military expenditure e cercare di prevenire la corsa agli armamenti indiscriminata.

Tuttavia, il Registro trova ancora difficoltĂ  attuative, sia in ragione della mera natura volontaria dello stesso, sia a causa del mancato recepimento frequente di quei report sulle spese militari che costituiscono la base per applicare il principio di trasparenza.

Accanto ad iniziative a carattere universale volontario, si sono aggiunte iniziative più convincenti a carattere regionale pattizio. Nel 1999 è stata stipulata la Convenzione Interamericana sulla trasparenza nelle acquisizioni militari. Ne sono parte 17 Stati americani, tra cui Canada e Messico. Gli Stati Uniti ne risultano solo firmatari. Riprendendo l’idea del Registro ONU, la Convenzione Interamericana si pone i medesimi obiettivi (art. II); la chiave di volta è rimessa alla cooperazione degli Stati nello scambio di informazioni, sia a livello di reporting sui quantitativi e i costi degli armamenti acquistati e venduti (art. III), sia sul numero e entità di esportazioni perfezionate (art. IV).

Rispetto ad iniziative istituzionali sovranazionali, rimangono solo le iniziative sporadiche dei singoli Stati (come nel caso delle pubblicazioni dei contratti della difesa conclusi dagli Stati Uniti) e di istituti di ricerca del settore (come lo Stockholm International Peace Research Institute – SIPRI, e l’International Institute for Strategic Studies – IISS). In entrambi questi casi, sono resi disponibili database che indicano i flussi di armamenti tra Stati, il quantitativo di spesa militare che ogni Stato ha sostenuto in un anno e i tipi di armamento trasferito. Non vi è, quindi, una prassi diffusa e uniforme che possa permettere la ricostruzione di una regola a carattere consuetudinario, se non nel senso di applicare la trasparenza alle modalità di spesa dei fondi pubblici da parte degli Stati.

Pertanto, data la scarna disciplina specificatamente applicabile alla military expenditure, bisogna considerare se vi siano obblighi internazionali generali e relativi all’ambito del disarmo che possano applicarsi ulteriormente.

***

Una delle prime considerazioni qui da svolgere è relativa al divieto di uso della forza, come enucleato all’art. 2, par. 4 della Carta delle Nazioni Unite. In questo senso c’è da chiedersi se “armarsi” comporti una possibile violazione di tale obbligo.

Sebbene non vi sia unicità per una definizione di attacco armato (ricomprendendo anche la guerra al terrorismo e gli attacchi cibernetici), si potrebbe pensare che il riarmo, la corsa agli armamenti o ogni attività volta ad incrementare le proprie forze armate potrebbe essere prodromico all’uso della forza, ad esempio intesa a “minare l’integrità territoriale di uno Stato” (C. Dörr, Use of Force, Prohibition of, in Max Planck Encyclopedia of Public International Law, par. 12 ss.). Tuttavia, se non può essere dimostrato che l’intento di spendere per armarsi sia prodromico ad un attacco armato, viene a mancare il possibile nesso causale tra la spesa militare e l’attacco armato vero e proprio. Ciononostante, la casistica internazionale sembra non mancare, come nel caso delle spese militari sostenute dall’Arabia Saudita nel 2016 in vista dell’operazione multiforze in Yemen, o l’incremento della spesa militare egiziana tra il 1967 e il 1971 che portò alla Guerra dello Yom Kippur. Tuttavia, non vi è uniformità e prassi decisiva che lasci intendere che la spesa militare possa portare ad agire contrariamente al divieto di uso della forza, né che l’acquisizione di armamenti costituisca automaticamente parte di un attacco armato.

Diverso il discorso relativo alla legittima difesa degli Stati. Anche in questo caso, la norma che trova conferma nell’art. 51 della Carta ONU prevede come requisito quello dell’attualità dell’attacco armato sferrato nei propri confronti. Vi è di più che la difesa anticipatoria e quella preventiva non sono considerate come legittime secondo il diritto internazionale contemporaneo. Al contempo, le (ormai) numerose norme pattizie sul controllo dei trasferimenti di vari tipi di armi convenzionali includono un richiamo al principio della legittima difesa quale regolatore dell’acquisizione di armi convenzionali (si veda, ad es., quello dell’Arms Trade Treaty).

In questo senso (e anche il Readiness 2030 sembra confermare ciò), la legittima difesa sembra includere il sostenimento della spesa militare, ma solo se tale spesa venga effettuata proprio allo scopo di garantire la legittima difesa nei confronti di un possibile attacco armato (e sempre che tale attacco sia incluso nella definizione di “uso della forza”: C. Gray, International Law and the Use of Force, 4th, 2018, p. 5). Questa situazione, peraltro, sembra emergere dalla prassi più recente (ad esempio, le acquisizioni da parte israeliana in vista della Guerra dello Yom Kippur del 1973 e quella dell’Ucraina a seguito dell’invasione russa di Crimea, Donbas e dell’invasione su vasta scala del 2022). Dubbi, invece, sussistono circa il legittimo ricorso alla spesa militare durante un conflitto armato (sul punto, si veda N. Zugliani, The Supply of Weapons to a Victim of Aggression: The Law of Neutrality in Light of the Conflict in Ukraine, in EJIL, vol. 35, 2024, 389 ss.).

Da un contesto meramente bellico si passa ad uno di natura più economica e sociale. Quanto evidenziato anche recentemente da studi di esperti e già paventato dall’Assemblea Generale, il commercio di armamenti e, per riflesso, la military expenditure possono incidere sul raggiungimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile. Questa è anche la maggiore preoccupazione di coloro che sostengono le ragioni contrarie al riarmo da parte dell’UE, ovvero che l’aumento della spesa militare non solo possa comportare la sottrazione di fondi per l’implementazione dei diritti economici e sociali, ma anche che il ricorso a strumenti finanziari come il SAFE possa aggravare la situazione pro futuro.

Nel caso della spesa militare, soprattutto gli Stati in via di sviluppo e le economie industriali poco sviluppate hanno assistito a ripetuti tagli ai servizi pubblici essenziali, ai fondi per l’implementazione degli obiettivi dello sviluppo sostenibile e per la modernizzazione industriale e delle infrastrutture. Questa considerazione, puramente di previsione macroeconomica, può essere indirizzata solo attraverso il perfetto bilanciamento dei fondi pubblici, preservando le risorse necessarie al raggiungimento di tali obiettivi.

Nel contesto della Readiness 2030, il Libro Bianco menziona la creazione del SAFE appositamente per permettere di finanziare l’aumento per la spesa militare e il ricorso alle clausole di salvaguardia come espediente per superare il tetto di deficit di bilancio imposto dal Patto di stabilità. Tuttavia, non è chiaro né come questo strumento possa incidere sulle economie nazionali, né quali saranno le condizioni per il finanziamento e se sia prevista una restituzione o addirittura l’attuazione di politiche economiche nazionali molto rigorose, come accade per il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Questa situazione di incertezza alimenta il timore che tale strumento possa incidere sensibilmente su quelle economie che non abbiano sufficiente capacità politico-economica per gestire un simile aumento della spesa e programmarla nel periodo medio-lungo.

Sotto un profilo di cooperazione giuridica, poi, la military expenditure potrebbe mettere alla prova anche l’applicazione di obblighi internazionali in materia di controllo degli armamenti convenzionali. In particolare, nel Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa – CFE (stipulato a Parigi nel 1990 tra gli Stati dell’Alleanza Atlantica e l’ex URSS; la Russia non ne fa più parte dal 2009, mentre gli Stati Baltici, Svezia e Finlandia non hanno mai firmato il Trattato) sono previsti (artt. III e ss.) alcuni obblighi circa la limitazione numerica di vari tipi di armamento che siano acquisiti e messi a disposizione delle forze armate dei vari Stati. In particolare, si stabilisce che le limitazioni saranno di natura quantitativa, secondo i limiti numerici fissati dall’art. IV, par. 1, per i veicoli armati (carri armati e veicoli di assalto), pezzi di artiglieria, aerei caccia ed elicotteri d’assalto. Queste limitazioni sono stabilite per diverse aree geografiche (se ne contano 4), dove per ognuna sono fissati i limiti massimo di disposizione delle unità (art. IV, par. 2 ss.)

Essendo un accordo atto a limitare il numero di forze armate presenti su un territorio, la base giuridica si rinviene nel sistema di notifiche tra Stati parti (art. VII). Con queste, gli altri Stati possono conoscere il numero di armamenti posseduti, quello di armamenti che verranno acquisiti oltre il limite e quello degli armamenti che verranno dismessi o ceduti. Ciò al fine di effettuare una “compensazione interna” sulle proprie forze armate entro i termini prescritti. Al contrario, le suddette limitazioni non possono permettere una “compensazione per area” tra gli Stati territorialmente inclusi, in modo che alle limitazioni di uno corrispondano gli aumenti degli altri e viceversa (art. VII, par. 6).  

Tuttavia, non è chiaro se il Readiness 2030 comporti acquisti per la difesa nazionale che possano andare oltre i limiti previsti dal Trattato CFE. In tale caso, il problema in concreto che si pone è se lo Stato parte della Convenzione e richiedente il finanziamento SAFE stia acquisendo armamenti al fine di aumentare il proprio comparto bellico, o se stia facendo ciò al solo scopo di aggiornare i propri sistemi difensivi, rimpiazzando quindi quelli obsoleti (la cui pratica, in base agli artt. VIII e ss. del Trattato, può portare anche alla conversione dei precedenti veicoli militari in veicoli civili, o allo smantellamento per recupero di parti e componenti, oppure al trasferimento verso altro Stato, applicando quindi i limiti normativi previsti per i trasferimenti di armi convenzionali).

In quest’ottica, la prima ipotesi è sicuramente in violazione del Trattato, laddove le nuove acquisizioni siano fatte senza considerare l’applicazione dell’obbligo in sé, o senza aver notificato entro i termini prescritti il numero di armamenti ridotti e acquisiti, oltre ad aggirare i limiti sulle compensazioni numeriche previste dall’accordo medesimo.

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In definitiva, il piano europeo Readiness 2030 presenta la bivalenza tipica di una situazione di emergenza. Al di là dei possibili “benefici” circa lo sviluppo di una difesa comune, sono diversi i profili che destano preoccupazione. Da un lato, la principale preoccupazione riguarda i limiti di spesa e di investimento pubblico che gli Stati membri cercheranno di attuare, in considerazione di possibili impatti negativi sul raggiungimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile. Dall’altro, le preoccupazioni sono rivolte alla compatibilità tra quanto verrà prescritto dagli strumenti normativi previsti dal Libro Bianco e i possibili (seppur limitati) impegni normativi internazionali sulla trasparenza, la cooperazione internazionale e le limitazioni di armamenti.

Data articolo:Mon, 14 Apr 2025 15:41:28 +0000
Diritti Umani a cura di Elena Corcione
Meno diritti umani, piĂš competitivitĂ ? Alcune considerazioni sul pacchetto Omnibus proposto dalla Commissione europea

Elena Corcione, UniversitĂ  di Pollenzo

Il 26 febbraio 2025 la Commissione europea ha pubblicato un pacchetto di proposte legislative denominato Omnibus, che interviene sulla disciplina in materia di impresa e diritti umani a livello europeo, faticosamente assemblata negli ultimi anni. La proposta modificherebbe sostanzialmente la recentissima Direttiva sul dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità (Direttiva UE 2024/1760, in seguito “CSDDD”, entrata in vigore il 25 luglio 2024) e la Direttiva sulla rendicontazione societaria di sostenibilità (Direttiva UE 2022/2464, in seguito “CSRD”, entrata in vigore il 5 gennaio 2023, che già modificava la precedente disciplina della rendicontazione non finanziaria), al contempo rinviandone l’effettiva applicazione.

La novità ha suscitato immediate reazioni e commenti da parte di studiosi, ONG e grandi imprese (tra i molti, ad esempio qui, qui e qui). In vista dei preannunciati interventi legislativi, prospettati nella comunicazione dello scorso gennaio A Competitiveness Compass for the EU, il gruppo di lavoro dell’ONU su imprese e diritti umani aveva incoraggiato l’Unione europea a proseguire la propria azione di allineamento con i Principi Guida ONU su impresa e diritti umani, su cui la CSDDD espressamente si fonda, evitando di riaprire il dibattito su un testo già adottato. Per rispondere alla necessità di certezza per le imprese e di coerenza tra CSDDD e standard internazionali, il gruppo di lavoro auspicava piuttosto una guida dell’Unione per agevolare le imprese nell’attuazione della CSDDD.

In altre parole, la Commissione poteva scegliere se semplificare guidando e accompagnando le imprese verso l’adeguamento agli obblighi di rendicontazione e diligenza o se semplificare deregolamentando; ad oggi, tra le due strade, sembra aver scelto di percorrere la seconda.

La proposta Omnibus è ispirata, secondo la Commissione, al rapporto di Mario Draghi “The future of European competitiveness” rilasciato a settembre 2024 e alla dichiarazione di Budapest dello scorso novembre, in cui si chiedeva una riduzione dei costi di compliance e degli oneri amministrativi e di trasparenza, soprattutto per le piccole e medie imprese, in un’ottica di semplificazione. Garantire ed incrementare la competitività delle imprese europee, anche in considerazione degli “approcci diversi adottati da altre giurisdizioni significative” e dei mutati assetti geopolitici (explanatory report, p. 2), sembra quindi essere l’obiettivo che ha spinto la Commissione a semplificare le norme esistenti, riducendo gli oneri “senza però minare agli obiettivi di CSRD e CSDDD” (ibidem). La necessità di semplificazione ha peraltro visto da subito il supporto di alcuni Stati membri (si veda in particolare il comunicato rilasciato il 20 gennaio 2025 dalle autorità francesi) e di alcuni partiti europei (si veda la posizione assunta dall’EPP).

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Le principali direttive interessate dalle modifiche proposte con il pacchetto Omnibus, la CSRD e la CSDDD, operano su due piani distinti, ma complementari. In estrema sintesi, il contenuto delle due norme può riassumersi come segue.

La CSRD impone alle imprese una disclosure circa l’impatto della propria attività sulle questioni di sostenibilità. In pratica, le imprese che rientrano nell’ambito di applicazione della Direttiva devono descrivere, in un’apposita sezione della relazione di bilancio, le procedure di due diligence attuate in relazione alle questioni di sostenibilità, nonché i principali impatti negativi effettivi o potenziali connessi alle attività dell’impresa e alla sua catena del valore e le azioni intraprese per identificare e monitorare tali impatti e prevenirli. Per dar seguito agli oneri di rendicontazione imposti dalla CSRD, la Commissione europea ha adottato un primo set di standard obbligatori di rendicontazione, denominati ESRS (European Sustainability Reporting Standards).

Per consentire un progressivo adeguamento delle imprese agli obblighi di rendicontazione, la CSRD prevede che detti obblighi debbano applicarsi a diverse categorie di imprese secondo scaglioni temporali (c.d. waves). Gli obblighi sono quindi operativi già dal 2025 (in riferimento all’esercizio dal 1° gennaio 2024) per le grandi imprese e i grandi gruppi di società (rectius: capogruppo) che costituiscono enti di interesse pubblico, con un numero medio di 500 dipendenti occupati durante l’esercizio, fino alle piccole e medie imprese (PMI) con valori immobiliari ammessi alla negoziazione in mercati regolamentati dell’Unione soggette a obbligo di rendicontazione dal 2027 (con possibilità di opt-out per i primi due anni). Per sostenere le PMI nel conformarsi agli obblighi di rendicontazione, la CSRD prevede già alcune cautele, tra cui un’applicazione semplificata degli ESRS, standard volontari di rendicontazione per le PMI escluse dall’ambito di applicazione della norma e una c.d. value chain cap (che esclude dalla rendicontazione di sostenibilità delle grandi imprese informazioni che queste dovrebbero ottenere dalle PMI operanti nelle loro catene del valore ulteriori rispetto a quanto queste ultime siano tenute a rendicontare).

La CSDDD, invece, opera su un piano sostanziale e non di sola trasparenza, prevedendo veri e propri obblighi di monitoraggio della catena di attività delle grandi imprese (per una disamina puntuale del contenuto della CSDDD si veda Bonfanti). Nell’ambito di applicazione soggettivo della CSDDD rientrano le grandi imprese identificate sulla base di fatturato e numero di dipendenti (imprese con una media di almeno 1000 dipendenti e fatturato netto mondiale superiore a 450 milioni di euro; capogruppo di gruppi con medesimi limiti o franchising con diritti di licenza superiori a 22,5 e fatturato superiore a 80 milioni; imprese straniere con il medesimo fatturato minimo nel mercato dell’Unione). Tali imprese sono tenute a avviare un processo di due diligence in materia di diritti umani basato sul rischio, adottando le misure necessarie alla prevenzione, mitigazione e rimedio degli impatti negativi sui diritti umani, effettivi o potenziali, derivanti dall’attività dell’impresa, delle filiazioni o dei partner commerciali nella catena di attività. Il processo di due diligence previsto dalla CSDDD ricalca sostanzialmente in linea con quanto previsto dai sei step della due diligence in materia di diritti umani delineata nelle Linee Guida OCSE per le imprese multinazionali. A rendere efficaci gli obblighi introdotti dalla CSDDD, vi è la previsione che gli Stati membri introducano nei rispettivi ordinamenti una fattispecie di responsabilità civile per danni attivabile dalle vittime in caso di violazioni derivanti dalla mancata predisposizione da parte delle imprese obbligate di un adeguato processo di due diligence (art. 29 CSDDD). Tra gli aspetti particolarmente positivi della CSDDD vi è poi l’estensione degli obblighi di controllo all’intera “catena di attività” a monte (c.d. upstream), con qualche limitazione sulla catena a valle (c.d. downstream), che ha già suscitato dibattiti soprattutto in relazione alle possibili conseguenze per alcuni settori cruciali come il finanziario e il digitale (si veda il documento di OHCHR, in generale, ed in particolare con riferimento al progetto B-tech). Pur con alcuni disallineamenti rispetto al quadro emergente in materia dai riferimenti internazionali, la CSDDD ha quindi sostanzialmente recepito l’impianto della corporate responsibility to respect human rights prevista a livello internazionale.

Da quanto fin qui descritto è quindi evidente che le due direttive siano strettamente interconnesse, non solo perchĂŠ vanno nella stessa direzione di incentivare e, progressivamente, imporre un’attivitĂ  d’impresa rispettosa dei diritti umani e dell’ambiente in linea con gli standard internazionali, ma anche perchĂŠ con la CSRD si chiede alle imprese di rendicontare, di fatto, l’attuazione degli obblighi di cui alla CSDDD, pur con alcuni disallineamenti in termini di ambito soggettivo e temporale di applicazione. Gli obblighi di cui alla CSDDD, quindi, precedono concettualmente quelli di cui alla CSRD (ancorchĂŠ l’Unione abbia adottato prima quest’ultima, contribuendo ad aumentare notevolmente il disorientamento delle imprese chiamate a rendicontare azioni che – evidentemente – non avevano ancora messo in campo).

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Con riguardo alla rendicontazione di sostenibilità di cui alla CSRD, il pacchetto Omnibus propone essenzialmente una notevole riduzione dell’ambito di applicazione soggettivo e uno slittamento dei tempi di attuazione. L’articolo 3 della proposta Omnibus restringe l’ambito di applicazione soggettivo alzando la soglia dimensionale alle grandi imprese e alle capogruppo che abbiano almeno 1000 dipendenti. La modifica esclude quindi in parte alcune grandi imprese già obbligate secondo gli scaglioni originari e del tutto le PMI, per le quali saranno redatti standard volontari sulla scorta di quelli già proposti da EFRAG (il gruppo consultivo europeo sull’informativa finanziaria). Questa modifica tenderebbe ad allineare l’ambito di applicazione della rendicontazione a quello della CSDDD: qualora la proposta fosse adottata, si stima che circa l’80% delle imprese originariamente obbligate alla rendicontazione ne sarebbero esonerate (secondo l’explanatory report della Commissione, p. 4). Dal punto di vista sostanziale, poi, è previsto un rafforzamento della value chain cap e una revisione degli attuali ESRS, sempre in ottica di semplificazione, che riduce e razionalizza il numero e il contenuto delle informazioni richieste alle imprese. In parallelo, il pacchetto Omnibus ha coerentemente previsto anche una proposta di slittamento dei tempi di applicazione degli obblighi di rendicontazione di due anni, al fine di evitare che le società ad oggi rientranti nel campo di applicazione della CSRD (e segnatamente quelle afferenti alle c.d. seconda e terza waves) procedano alla rendicontazione di sostenibilità e ne vengano poi esentate in caso di adozione dell’Omnibus.

Ma è con riguardo alla due diligence obbligatoria prevista dalla CSDDD che le proposte del pacchetto Omnibus avranno verosimilmente maggiore impatto sulla tutela dei diritti umani nel contesto delle catene globali del valore. Le principali modifiche proposte infatti riguardano alcuni aspetti cruciali della due diligence e dei meccanismi di enforcement previsti dalla CSDDD.

La modifica probabilmente più importante riguarda una limitazione della ‘catena di attività’ oggetto di due diligence. Viene infatti proposto di limitare il controllo da parte delle grandi imprese alle operazioni dei partner commerciali diretti, cioè quei soggetti con cui la società ha concluso un accordo commerciale. L’identificazione degli impatti negativi lungo l’intera catena di attività, inclusiva dei partner commerciali indiretti, sarebbe dovuto solo qualora l’impresa abbia “plausible information” che suggeriscano la possibilità che si verifichino o che si siano verificati impatti negativi sui diritti umani a livello di partner commerciali indiretti ovvero nel caso in cui la natura indiretta del rapporto con il partner commerciale sia frutto di un “artificial arrangement” che non rispecchi la realtà economica effettiva. In sostanza, la proposta si discosta dai Principi Guida ONU e tende ad allinearsi invece con la normativa tedesca in materia di supply chain, che richiede un controllo degli operatori più lontani nella catena del valore solo a fronte di una “substantiated knowledge” degli impatti negativi da parte dell’impresa.

Questa modifica comporta quantomeno due ordini di problemi. In primo luogo, esclude il controllo degli impatti negativi nelle fasi produttive più lontane dalle c.d. imprese apicali (tipicamente, le capogruppo e le grandi imprese che rientrano nell’obbligo di due diligence che controllano in via societaria o contrattuale le catene del valore) dove solitamente si verificano le più gravi violazioni dei diritti umani. Il sistematico “allontanamento” dei rischi, attraverso i molti livelli contrattuali o societari che si frappongono tra l’impresa apicale e le imprese che compongono la catena del valore, è ciò che consente a queste ultime di massimizzare i profitti esternalizzando i rischi umani e ambientali della produzione. È proprio per evitare queste storture del sistema produttivo che la due diligence, come intesa dai Principi Guida ONU, mira ad includere tutti gli impatti negativi (potenziali o effettivi) che l’impresa possa non solo causare direttamente, ma altresì gli impatti negativi cui possa contribuire o essere direttamente collegata (sui diversi livelli di coinvolgimento dell’impresa, si veda Van Ho). In secondo luogo, non è chiaro come debbano interpretarsi i fattori che dovrebbero innescare l’obbligo di estendere la due diligence ai livelli più lontani della catena di attività. Nell’explanatory report (p. 18), l’esistenza di “plausible information” viene identificata con i casi in cui l’impresa abbia ricevuto un “claim” ovvero i casi in cui l’impresa sia consapevole dell’esistenza di rapporti da parte di “credible NGOs” (di come e chi possa stabilire la credibilità di un’ONG non vi è indicazione) o da parte dei media riguardo attività dannose a livello di un partner commerciale indiretto, ovvero quando ci siano precedenti di violazioni da parte di un partner commerciale, ovvero se l’impresa sia a conoscenza di particolari problemi rispetto ad una certa area (ad esempio in caso di conflitto). La modifica, così proposta, sembra contrastare con il senso stesso dell’attività di due diligence, il cui scopo è proprio quello di creare tale consapevolezza nell’impresa, attraverso una mappatura dei rischi connessi alle attività lungo l’intera catena del valore. Imporre una valutazione dei rischi a livello di partner commerciali indiretti solo qualora l’impresa abbia già tale consapevolezza o conoscenza e non anche quando avrebbe dovuto o potuto averla – proprio all’esito di un risk-assessment necessariamente ampio ed inclusivo- crea una lacuna che mina il senso stesso della due diligence e, al contempo, aumenta esponenzialmente il potere dei soggetti che possono valutare e certificare l’esistenza (o l’inesistenza) di tali rischi. L’estensione della cadenza dell’obbligo, da annuale a quinquennale è in palese contrasto con gli strumenti internazionali che presuppongono invece un continuo monitoraggio e adeguamento del processo di due diligence, e non fa che annacquare ulteriormente la previsione rischiando di relegarla ad un mero esercizio di stile.

La seconda importante modifica riguarda poi i meccanismi di enforcement, sia pubblici che privati. Dal punto di vista delle sanzioni pecuniarie (art. 27 CSDDD) sarà la Commissione a predisporre delle linee guida per la determinazione delle sanzioni, che comunque non dovranno più essere commisurate al fatturato dell’impresa, né oggetto di tetto massimo stabilito dagli Stati membri. Dal punto di vista del meccanismo di responsabilità civile (art. 29 CSDDD), l’Omnibus elimina la previsione di un regime di responsabilità delle imprese comune a tutti gli Stati membri. Agli Stati membri non è più richiesto, quindi, di assicurare l’esistenza di un regime di responsabilità civile in caso di danni derivanti dall’inosservanza del dovere di diligenza, ma solo di assicurare il diritto al risarcimento nel caso in cui un’impresa sia considerata responsabile secondo la legge nazionale. A ciò si aggiunge l’eliminazione della clausola che chiedeva agli Stati di consentire le azioni rappresentative, autorizzando la legittimazione ad agire di sindacati o ONG; con l’effetto, da un lato di frammentare ulteriormente il contenzioso in una moltitudine ricorsi individuali dai risultati potenzialmente contrastanti e, dall’altro lato, di minare l’accesso alla giustizia in particolare degli individui in condizioni particolarmente svantaggiate. Non da ultimo, viene eliminato l’art. 29 comma 7, che conteneva un’importante previsione di raccordo con i meccanismi del diritto internazionale privato, stabilendo che le norme nazionali di recepimento dell’articolo sulla responsabilità civile fossero da considerarsi di applicazione necessaria in caso di controversia cui fosse applicabile il diritto di un paese extra-UE (sulle implicazioni di tale previsione, anche in relazione alla sua riferibilità alla sola clausola di responsabilità civile e non all’intero corpus degli obblighi di cui alla CSDDD, si vedano le considerazioni di Boschiero e Greco).

Alcune ulteriori modifiche contribuiscono ad alleggerire gli oneri in capo alle imprese, appesantendo il fardello delle potenziali vittime delle violazioni. Viene ristretto lo spettro degli stakeholders da coinvolgere nei processi di due diligence rilevanti, eliminando le istituzioni nazionali per i diritti umani e le organizzazioni della società civile rappresentative degli interessi delle vittime e di tutela dell’ambiente; viene eliminato il dovere di risolvere i rapporti con i partner commerciali coinvolti in episodi di violazioni dei diritti umani, ad oggi previsto quale extrema ratio, in favore di una mera sospensione di tali rapporti, in considerazione della natura cruciale che alcuni fornitori possono avere nella catena di attività. Viene ridimensionata la portata effettiva degli impegni climatici richiesti alle imprese.

Anche l’applicazione della CSDDD viene poi rinviata di un anno, per dar modo alle imprese di adeguarsi agli obblighi, contestualmente consentendo alla Commissione di adottare le necessarie linee guida.

***

Come si è detto in apertura, la proposta di semplificazione si basa sull’assunto che i doveri di diligenza e rendicontazione siano un onere sproporzionato per le imprese europee e che, come tali, ne indeboliscano la competitività. È lecito quindi domandarsi se esista questo rapporto inversamente proporzionale tra competitività e attuazione degli obblighi di rendicontazione e diligenza e, qualora esistente, se sia tale da giustificare un passo indietro a scapito della tutela dei diritti umani. La stessa Commissione riconosce che il rinvio proposto ritarda i potenziali impatti positivi connessi alla rendicontazione di sostenibilità, considerata uno strumento utile ad influenzare positivamente la condotta delle imprese rispetto ai diritti umani, accrescendo la consapevolezza delle imprese rispetto alle loro attività e impatti (explanatory report, p. 9). Al contempo, tuttavia, la Commissione sostiene che il rinvio e l’eliminazione di alcune imprese tout court dall’ambito di applicazione degli obblighi di rendicontazione genererebbe altri vantaggi dal punto di vista sociale: in termini di creazione di ricchezza, impiego e innovazione, anche in termini di sostenibilità.

A ben vedere, tale prospettiva si focalizza sui costi del breve periodo e non consente di comprendere i vantaggi a lungo termine di una produzione più sostenibile, oltre ad essere particolarmente frustrante rispetto allo scopo ultimo della tutela delle vittime delle violazioni di diritti umani. L’accento è posto, ancora una volta, sulla crescita economica e sulla ricchezza, anziché sulla tenuta nel tempo di un’attività produttiva largamente insostenibile per le persone e per il pianeta.

Peraltro, lo studio preliminare richiesto dalla Commissione nel 2020 prima di avviare il processo legislativo sulla CSDDD, aveva fornito alcune previsioni di incremento dei costi di allineamento ad un eventuale normativa che prevedesse una due diligence obbligatoria lungo la catena del valore. Le stime, pur da considerare con cautela, segnalavano un’incidenza dei maggiori oneri in termini di costo del lavoro e attività outsourced per adeguarsi alla normativa che ammontavano allo 0,14% e 0,01%, rispettivamente per PMI e grandi imprese, rispetto alle revenues (ibidem, pp. 428-429, tabella 8.34). L’incidenza marginale degli oneri per le imprese obbligate, se paragonata agli enormi profitti di queste ultime (come opportunamente sottolineato da diverse ONG), è peraltro avvalorata dai dati riportati dalla stessa Commissione relativi all’impact assessment allegato alla proposta di CSDDD nel 2022. I numeri, quindi, sembrano smentire la necessità di frenare su dovere di diligenza e rendicontazione di sostenibilità per garantire la competitività delle imprese europee.

Al di là dei meri numeri, vi sono poi considerazioni di prospettiva per cui non è auspicabile fare marcia indietro sulla sostenibilità dell’attività d’impresa. La due diligence in materia di diritti umani è la chiave per passare da un sistema fondato sull’azione degli stakeholders esterni per contrastare il mancato rispetto dei diritti umani da parte delle imprese all’interiorizzazione di tale rispetto da parte delle imprese stesse, attraverso la conoscenza e il monitoraggio delle proprie catene del valore e la comunicazione delle azioni intraprese (in altre parole, dall’ottica del “name and shame” al “know and show” (OHCHR, par.80). In altre parole, i doveri di diligenza e di rendicontazione sono, da un lato, uno strumento essenziale per tutelare i diritti umani e l’ambiente, ma anche, dall’altro lato, uno strumento per consentire alle imprese di agire d’anticipo. Una “semplificazione” non solo non ridurrà le effettive violazioni dei diritti umani che sono continuamente perpetrate nell’ambito delle lunghe catene del valore delle imprese europee ma anzi, verosimilmente, contribuirà ad accrescere il contenzioso nei confronti delle grandi società apicali e società capogruppo, che continueranno a essere chiamate a rendere conto di ciò che accade al di là dei confini europei (come avvenuto ad esempio, nel caso Shell o potrebbe avvenire nel caso Dyson per citarne alcuni). Una scelta al ribasso da parte del legislatore europeo non può quindi che esporre le imprese europee ad un sempre maggiore rischio di essere coinvolte in contenziosi sui diritti umani, senza che queste ultime siano effettivamente consapevoli e preparate ad affrontare tali rischi.

In definitiva, sembra doversi ridimensionare di molto il “rumore” creato intorno al pacchetto Omnibus. Così come gli attuali obblighi di cui alla CSRD e alla CSDDD non costituiscono oneri insormontabili per le imprese, neppure l’eventuale approvazione del pacchetto Omnibus determinerà la scomparsa tout court di qualsiasi impegno o l’impunità per queste ultime, pur andando a ridimensionare alcuni aspetti degli obblighi esistenti. Come spesso accade, l’effetto annuncio rischia di avere una portata ben più catastrofica del contenuto sostanziale della proposta, spingendo le imprese che già si erano messe sul cammino della sostenibilità a sospendere (incautamente) il percorso avviato: non solo perché la sostanza del pacchetto Omnibus non è così rivoluzionaria, ma anche perché il quadro internazionale ha avuto e continuerà ad avere una funzione di traino rispetto alle legislazioni nazionali e all’attività giurisdizionale, indipendentemente dalle sorti delle direttive europee.

Data articolo:Mon, 17 Mar 2025 11:35:29 +0000
Diritti Umani a cura di Francesca Cassano
Meta’s New “Hateful Conduct Community Standards” Policy and its (Dis)Alignment with International Human Rights Law on Hate Speech

Francesca Cassano (UniversitĂ  degli Studi di Milano)

1. Introduction

On January 7th, 2025, Mark Zuckerberg, CEO of Meta (hereafter also referred to as the “Company” or the “Platform”), announced several changes to the content moderation policies governing its social media platforms, namely Facebook, Instagram and Threads. These reforms addressed two key aspects of the Company’s content moderation practices: the fact-checking program and the so-called Hate Speech Community Standards. Regarding the former, Meta decided to eliminate, starting in the US, the fact-checking program and replace it with a community notes system, similar to the one already implemented on platform X. As for the latter, the Hate Speech Community Standards were simplified by removing a series of restrictions on topics deemed to be, allegedly, of public interest. Specifically, the Company’s decisions aim, at least ostensibly, at addressing and preventing an allegedly excessive censorship that has characterized the Platform’s content moderation to date, as well as to avoid silencing diverse opinions and ideas on «mainstream» issues. However, as it will be argued, it seems that the declared intention of the Company at better «promoting free speech» is just the latest example of a social media company aligning to the policies of the new US administration.

As a matter of fact, regardless of the Company’s real purposes, the amendments implemented raise several questions about their compliance with human rights law standards and their potential negative impacts towards groups that are already primary targets of hate speech on social media platforms. Certainly, even before these reforms, Meta/Facebook was not known for its strong commitment to human rights, and its role in alleged human rights violations has been widely criticized. Several tragic episodes — such as the genocide of the Rohingya in Myanmar, the anti-Muslim riots in Sri Lanka, and the ethnic cleansing of Tigrayan civilians in Ethiopia — have unfortunately demonstrated the Platform’s involvement in human rights abuses and in the commission of offline violence against vulnerable and marginalized groups. However, despite its failure to properly address these episodes and prevent them, it appeared that the Company was at least attempting to make some progress, albeit without fully addressing the issues. Initiatives such as the establishment of the Oversight Board in 2020 and the adoption of a Corporate Human Rights Policy in 2021 suggested an effort, albeit limited, to improve the Company’s human rights commitment.

Nevertheless, rather than a step forward, this latest move represents a deliberate regression that risks entrenching harmful practices under the guise of freedom-oriented reforms. In this regard, specific concerns have been raised regarding Zuckerberg’s statement about the need to ÂŤget rid of a bunch of restrictions on topics such as immigration and gender that are just out of touch with mainstream discourseÂť (see announcement of January 7th). Indeed, following Meta’s announcement, the UN High Commissioner for Human Rights criticized the Platform’s decisions, emphasizing that ÂŤallowing hate speech and harmful content online has real-world consequencesÂť and that ÂŤregulating this content is not censorshipÂť.   Against this critical background, the following paragraphs will first provide a brief overview of the existing human rights law standards on hate speech applicable to online platforms. The focus will then shift to assessing the compliance of the new Meta’s Community Standards on Hateful Conduct with this framework, as well as the concrete threats they may pose to vulnerable groups and marginalized communities.

2. Human rights law standards regulating hate speech and their application to online platforms

When considering the regulation of hate speech within the human rights law framework, there are several important, albeit few, provisions found in both universal and regional human rights law treaties. It should be preliminarly emphasized that none of the following provisions explicitly mention the term “hate speech”, that to date does not have a universally accepted definition, nor do they directly bind Meta or other online platforms, as they are binding only towards their member States. However, analysing these provisions is crucial for understanding the human rights law standards on hate speech, which online platforms, such as Meta, should consider when developing and enforcing their own content moderation policies.

Regarding the universal framework, key provisions are outlined in the International Covenant on Civil and Political Rights (“ICCPR”), particularly in Art. 19, par. 3 and in Art. 20, par. 2, as well as in the International Convention on the Elimination of All Forms of Racial Discrimination (“ICERD”) in Art. 4. In particular, Art. 19 par. 3 of the ICCPR provides the conditions under which States parties may restrict the right to freedom of expression (protected in par. 1 and 2 of the same article) in order to protect national security, public order or the rights and reputations of others. On the other hand, Art. 20 par. 2 of the ICCPR and Art. 4 of the ICERD go further by imposing specific positive obligations on States parties to prohibit and criminalise certain forms of incitement to hatred (for a detailed analysis of this framework see De Sena and Castellaneta). At the regional level, particular attention should be given to the framework of the European Convention on Human Rights (“ECHR”). While the ECHR does not explicitly include a provision equivalent to Art. 20 par. 2 of the ICCPR or Art. 4 of the ICERD — both of which prohibit and criminalise incitement to hatred, as does Art. 13, par. 5 of the American Convention on Human Rights — the European Court of Human Rights (“ECtHR”) has, nonetheless, developed the most extensive jurisprudence on hate speech to date (see here). In particular, the ECtHR, in applying the provision that prohibits the abuse of rights under Art. 17 of the ECHR, has effectively excluded from the scope of Art. 10 — which guarantees the right to freedom of expression — all forms of hate speech that are manifestly contrary to the principles and values upheld by the Convention (see Castellaneta). The ECtHR jurisprudence has also played a crucial role in shaping the responsibility of online platforms in regulating harmful content. A landmark case in this regard is Delfi AS v. Estonia (2015), in which the Court held that online platforms could be held liable for hosting offensive comments, even if the platform itself did not directly post the content and that they must also take proactive measures to prevent the dissemination of hate speech and other harmful material (see also in this regard Sanchez v. France and for an analysis of this latest decision see Castellaneta).

Turning now to the standards applicable to online platforms, as it has been explicitly confirmed by the 2018 report of the UN Special Rapporteur on the promotion and protection of the right to freedom of opinion and expression, social media companies’ content moderation should align with international human rights law. This framework derives primarily from the 2011 UN Guiding Principles on Business and Human Rights (“UNGPs”), which call on all businesses — regardless of their type or size — to respect human rights, implement a human rights due diligence mechanism (“HRDD”), and address adverse human rights impacts, including by ensuring access to effective remedies for the victims of their violations. Beyond the UN framework, another key instrument that applies both to multinational and domestic enterprises are the OECD Guidelines for Multinational Enterprises on Responsible Business Conduct (“OECD Guidelines”). A particularly notable feature of this instrument is the National Contact Point system (“NCP”), which serve as non-judicial dispute resolution mechanisms aimed at overseeing the implementation and effectiveness of the OECD Guidelines. To date, NCPs have rarely handled cases involving online platforms. However, a complaint is currently pending before the United States NCP against Facebook/Meta, after initially being filed before the Ireland NCP. The complaint calls on the Platform to provide a remedy to the Rohingya people for its role in hosting content that incited violence and hatred against the minority and that contributed to the 2017 “clearance operation” carried out by the Burmese army.

There have also been more targeted efforts of the international community to engage online platforms in countering hate speech and improving their transparency and accountability. For instance, a recent initiative was led by UNESCO, which in 2023 published the Guidelines for the Governance of Digital Platforms. According to these guidelines, online platforms should comply with several key principles such as assessing their human rights impact, including on gender and minority issues (par. 85–90); they also specifically urge digital platforms to «put in place sufficient special protections for women and girls, users from groups in situations of vulnerability and marginalization» (par. 130). Furthermore, at the regional level, highly significant is the Recommendation on combating hate speech, adopted by the Committee of Ministers of the Council of Europe in 2022. One of the most compelling aspects of this Recommendation is the suggestion for all stakeholders, including online platforms, to calibrate their response to hate speech by considering not only the usual contextual factors such as the mode of dissemination and the size of the audience, but also the specific harms and impacts of the phenomenon, as well as the specific characteristics of the targeted groups (par. 3 and 4, and for recommendations regarding Internet intermediaries, see from par. 30 to 37).

However, as already mentioned, all the aforementioned instruments are non-binding for online platforms, as International Law has traditionally been conceived as binding primarily on sovereign States. This means that non-state actors, such as transnational companies, do not have corresponding international legal obligations. For this reason, it is also crucial to briefly consider the significant developments within the European Union law framework in its efforts to directly regulate businesses, and more specifically, online platforms. Accordingly, recent initiatives such as the Corporate Sustainability Due Diligence Directive (“CSDDD”) and the Digital Services Act (“DSA”) aim at imposing stricter obligations on companies, enhancing accountability and ensuring greater alignment with human rights standards also in the digital sphere. The CSDDD also applies to non-EU companies with a turnover exceeding 450 million euro in the EU in the last financial year, requiring them to integrate a HRDD that help to prevent and mitigate their adverse human rights impacts (for a detailed analysis see Bonfanti and Greco). The DSA holds Very Large Online Platforms (“VLOPs”) — those with an average number of monthly active service recipients in the EU equal to or exceeding 45 million — accountable by requiring them to assess and mitigate systemic risks related to illegal content, including hate speech (Art. 34). If a risk is identified, Art. 35 par. 1 lett. c allows platforms to take measures such as content removal, but only upon prior notification by a user or trusted flagger (Artt. 16, 22) (see in this regard Ruotolo). Consequently, for major online platforms falling within their scope, such as Meta, this regulatory framework may directly affect their online moderation of hate speech. Moreover, it appear also to be the reason why the new Meta’s community note system has been implemented only in the US so far and also the reason behind Zuckerberg’s declaration on his intention to «work with President Trump to push back governments around the world, going after American companies and pushing to censor more» (see announcement of January 7th).

Ultimately, while the said human rights law framework sets important principles on hate speech regarding the content moderation processes of online platforms’, its limited enforceability highlights the need for more robust and binding regulations, as seen in the EU’s emerging legal landscape. Overall, these efforts contribute to countering hate speech and addressing online platforms’ responsibility, though they are not without flaws, particularly in terms of effectiveness, clarity, and the absence of a coherent and unified approach in handling the phenomenon.

3. Assessing the compliance of the new Meta’s “Hateful Conduct Community Standards” with the human rights law framework on hate speech

In light of the aforementioned legal framework, it is now paramount to highlight the main issues arising from Meta’s new Community Standards on Hateful Conduct. It should be preliminarily noted that to assess the Company’s reforms, a detailed description of all amendments in the new Community Standards is available on Meta’s Transparency Center website.

A first important consideration is the decision to change the policy name from “Hate Speech Community Standards” to “Hateful Conduct Community Standards”. Although this shift may seem merely terminological at first glance, when considered within the current political and cultural context, it reveals a potential redirection and narrowing of the policy’s scope of application. Specifically, the new name suggests that the policy may now only target expressions that are directly linked to material acts of violence. Indeed, this approach seems to mirror a US centric interpretation of free speech, which tends to restrict expressions only when they incite or are closely connected to violent actions (the said principle was stated by the US Supreme Court in 1969 in the Brandenburg v. Ohio case). This, in turn, risks undermining the broader protections against hate speech set out in international human rights law, which also calls for the prohibition and/or criminalisation of speech that fosters discrimination and hostility, not only violence (see Art. 20 par. 2 ICCPR and Art. 4 ICERD). Moreover, even if the definition of “hateful conduct” contained in the new Standards does not differ from the previous one on “hate speech” – namely a direct attack against people on the basis of specific protected characteristics – the connection between the spread of hate speech and the promotion of an environment of intimidation, exclusion and of potential offline violence has been removed. This omission itself shows an intention of downplaying the broader societal harms of online hate speech, thus weakening the Platform’s responsibility to mitigate its potential real-world consequences.

Moreover, within the new Standards, the Platform then classifies the severity of “hateful conduct” into two tiers: the first tier identifies the most severe forms of content that dehumanize or incite serious harm or violence towards individuals or groups, while the second tier targets content that attacks individuals or groups based on their protected characteristics. In this regard, what differs with the previous Standards and what emerges as more concerning isn’t the number of tiers – that were already modified in December 2023 passing from three to only two levels of severity – but the removal within them of a series of protections towards groups that are historically oppressed and marginalized. For instance, among the most alarming policy changes, the Platform now permits users to advocate for exclusion or use insulting language when discussing “political” or “religious” topics, such as transgender rights, immigration, or homosexuality.  In addition, while Meta’s policy still prohibits users from posting content that targets individuals or groups based on their protected characteristics or immigration status with dehumanizing speech — such as comparisons to animals, pathogens, or sub-human life forms — the recent changes imply that it may now be permissible to compare women to household objects as well as allowing the use of dehumanising pronouns like “it” for transgender and non-binary individuals. Furthermore, the Platform now permits to its users to describe LGBTQ+ people as mentally ill or abnormal and to call for their exclusion from professions, public spaces, and society based on their sexual orientation and gender identity. Such changes not only pose a concrete threat to the inclusions of individuals and of members of protected groups, but they also clearly fail to align to the above-mentioned human rights law framework, which explicitly suggests online platforms to consider the human rights impacts of their policies on vulnerable individuals and communities (see, for instance, Principle No. 18 UGPDs, as well as par. 89 and 130 of the UNESCO Guidelines).

It is unfortunately evident that Meta’s new approach, framed as a commitment to better guarantee the right of freedom of expression, not only fails to align with the aforementioned business responsibility to respect human rights, but also undermines the very principle it professes to protect. Indeed, it is well established that hate speech — both online and offline — not only causes physical, psychological, and economic harm to its targets, but also compromises their sense of security and may silence them out of fear of potential repercussions (see Matsuda et al.). Moreover, hate speech, especially if widespread and uncontrolled such as on social media platforms, may represent a direct threat towards political and social values and it may undermine principles upon which constitutional democracies are founded (see Waldron). It should also be noted that the new Standards constitute a clear retreat from the Human Rights Policy that the Company itself adopted in 2021. Among its human rights commitments, Meta explicitly pledged to «pay particular attention to the rights and needs of users from groups or populations that may be at heightened risk of becoming vulnerable or marginalized» (see commitment no. 2). However, with the 2025 hateful conduct policy the Platform clearly jeopardises these earlier human rights commitments by ignoring and removing crucial protections for vulnerable groups. In other words, the Platform does not appear to have adopted an effective HRDD process. This, unfortunately, highlights the limitations of the aforementioned standards, as their implementation remains at Meta’s discretion, with no oversight or accountability ensuring their actual enforcement.

In this pressing scenario, many questions should arise about the role that the Meta Oversight Board will play in supervising the Platform’s content moderation processes, particularly regarding whether it might have the authority to mitigate the potential negative impacts of the 2025 Hateful Conduct Community Standards. As previously mentioned, the Oversight Board was established by the Company in 2020 after facing immense pressure from users, governments, and civil society to act more transparently and with accountability. Recently, this instrument has been defined as a form of “transnational hybrid adjudication” in the sense that it represents an independent dispute settlement body that resolve cross-border legal cases (see Gulati). In particular, according to the introduction of the Oversight Board Charter, its purpose is to «protect free expression by making principled, independent decisions about important pieces of content and by issuing policy advisor opinions on Meta’s content policy». In other words, the members of the Oversight Board determine whether the Platform was justified in removing or leaving up controversial content. Moreover, the Oversight Board’s decisions in that matter are binding upon Meta, meaning that the Company is required to implement its ruling on content moderation cases. In this regard, it is also essential to specify that, in adjudicating disputes, the Board does not rely only to the Platform’s standards and values but considers also «human rights norms protecting freedom of expression» (Art. 2 section 2 of the Board’s Charter). Thus, international human rights law is explicitly referenced as a source of applicable law for the Oversight Board. This is further confirmed by the Board’s practice, as it often highlights the Company’s human rights responsibilities under instruments such as the UDHR, the ICCPR and the UNGPs when explaining its decisions (see for example these recent Board’s multiple case decisions here and here).

On the other hand, the establishment of the body has not been without criticism, particularly regarding its overall effectiveness (see inter alia Di Stefano and Wong et. al). For instance, concerns remain about the broader systemic impact of another key function of the Oversight Board, i.e., issuing recommendations on how Meta can improve its content moderation policies. This is because, regarding the implementation of the said recommendations, Meta retains discretion over whether and how to enforce the policy changes suggested by the Board, unlike the aforementioned individual content moderation decisions that are binding upon the Platform. Such discretionary power could limit the Board’s ability to drive meaningful and lasting structural reforms. Additionally, another key concern is the limited number of cases the Board reviews compared to the high volume of requests it receives. Given the vast scale of content moderation challenges on Meta’s platforms, the small fraction of cases the Board adjudicates raises questions about its overall effectiveness in shaping platform-wide policy changes. Nevertheless, it should also be acknowledged that, to date, the Oversight Board’s deliberations and activities appear to have effectively incorporated the existing international human rights law framework on hate speech (see Di Stefano) and it also represents an important — albeit singular — effort to address the critical issues raised by platforms’ content moderation decisions (see Gradoni and also Tiedeke et. al).

To date, there haven’t been many reactions from the Oversight Board after the implementation of the new Standards by the Company. In particular, after Zuckerberg’s announcements, the Oversight Board issued a brief statement on the same day, which focused more on the Platform’s decision to eliminate the fact-checking program than on the new hateful conduct policy. Anyway, on that occasion it was also stated by the Board that it «will be reviewing the implications of the various changes in line with its commitment to freedom of expression and other human rights». Consequently, there is a slight hope that the Board will oversee Meta’s content moderation decisions and at least try to ensure to reconcile the Company’s content moderation new practices with the existing international human rights law framework on hate speech. This will be crucial not only in ensuring accountability but also in safeguarding the rights of vulnerable groups and upholding International Law principles on freedom of expression.

4.  Concluding remarks

This recent policy changes not only undermines Meta’s commitments to human rights but appears also to align with a broader political landscape in the United States that prioritize deregulation and corporate discretion over accountability. A major challenge in promoting a human rights-based approach to content moderation on online platforms is that many of these companies are based in the US, where the near-absolute protection of freedom of expression under the First Amendment has resulted in minimal regulation of hate speech. There is a significant contrast between the approaches adopted by the United States and those within the international human rights law framework in regulating hate speech. This domestic legal framework significantly influences how these platforms define and address harmful content, often limiting their commitment to international human rights law standards.

On the other hand, what Zuckerberg and other online platform CEOs must acknowledge is that the activities of their multinational companies extend far beyond the United States, influencing and impacting users worldwide. Therefore, they should, first and foremost, comply with international legal standards on freedom of expression, which, for instance, require not only the prohibition of advocacy of violence but also of discrimination and hostility (Art. 20 par. 2 of the ICCPR).

In conclusion, instead of implementing a reform that clearly undermines the protection of vulnerable individuals and groups, the Platform could have focused more on improving and reinforcing oversight mechanisms that would also help to genuinely promote the right to freedom of expression by reducing the risks of errors and biases in Meta’s content moderation processes. For instance, if the platform’s true intention had been to protect the freedom of expression of its users, it could have invested in independent human rights impact assessments and stronger internal auditing processes. Additionally, it could have promoted the involvement of civil society organizations, human rights experts, and of affected communities to ensure that its policies and enforcement strategies align with international human rights standards on hate speech (see Hatano). Conversely, the Platform’s recent policy shift appears to be less a principled reassessment of free expression and more a strategic response to shifting political dynamics. In other words, Zuckerberg, after detecting a shift in public attitudes as well as in the US political climate, adjusted Meta’s approach accordingly — disregarding the fundamental rights of vulnerable groups in the process. Ultimately, Meta’s new Community Standards on hateful conduct should have aimed, instead, at both protecting freedom of expression and safeguarding the rights of vulnerable users. Online platforms like Meta must recognize these two goals as cumulative rather than mutually exclusive and ensure that their policies are shaped by fundamental rights rather than shifting political pressures.

Data articolo:Thu, 13 Mar 2025 19:08:08 +0000
Diritti Umani a cura di Lorenzo Acconciamessa
The Strange Case of Dr Jeckyll and Mr Hyde: Victim Status for Life-Threatening Environmental Harm in the ECtHR’s “Terra dei Fuochi” Judgment

Lorenzo Acconciamessa (University of Palermo; Member of the Editorial Board)

On 30 January 2025, the European Court of Human Rights (ECtHR or “the Court”) issued its judgment in the case of Cannavacciuolo and Others v. Italy, concerning the well-known large-scale pollution phenomenon stemming from illegal dumping, burying and/or uncontrolled abandonment of hazardous, special and urban waste, often associated with its incineration. The affected area, the Terra dei fuochi (“Land of Fires”), as currently delimited by the relevant domestic legislation, concerns 2,900,000 individuals, 52% of the population of the Campania region.

In what has been (rightly) defined a landmark judgment (Sommardal), the Court meticulously assessed all the available reports prepared by the domestic authorities that dealt with the issue, and some international reports, and concluded that the Government had not established that the authorities approached the problem with the diligence warranted by its seriousness and failed to demonstrate that the State did all that could have been required to protect the applicants’ lives, in breach of Article 2 of the European Convention on Human Rights (ECHR or “the Convention”; para. 465). It also considered that the breach derived from a «systemic failure» of the domestic authorities and the domestic legal system in dealing with the issue and that the situation affected and is capable of affecting a large number of people (para. 490); accordingly, it applied, for the first time in an environmental case, the pilot-judgment procedure, and indicated under Article 46 detailed general measures, which the State has been required to implement within a 2-year time-limit, under supervision of the Committee of Ministers (para. 493-500).

Since it would be impossible to deal with all the complex and interesting issues assessed in the 200-page judgment, in this post I will only focus on the question of the determination of victim status under Article 34 of the Convention in respect of complaints raised under Article 2 concerning life-threatening environmental harm, exclusively as regards the individual applicants (as regards the question whether the Court should have also applied the principles regarding victim status of NGOs for climate-change-related complaints, developed in Verein Klimaseniorinnen Schweiz v. Switzerland ([GC], 2024, paras. 489-503), in order to accord standing to several associations that had also acted before it, I refer to the detailed reasons provided in the opinions of Judges Krenc and Seghides, who argued that the Court should have taken this road, and which I fully endorse; see also Tigroudja on the same issue; more generally, on NGO’s standing before the Court, see Rossi).

So, the Government raised a two-fold victim status objection: on the one hand, they objected that there was no «proven causal link between the alleged breaches […] and the harm allegedly suffered» by all individual applicants; on the other hand, they observed that some applicants, or relatives who had deceased due to cancers that they claimed to derive from the exposure to the toxic substances generated by the phenomenon in question, had not resided in the geographical area described in the legislation as affected by that phenomenon. As it will be shown below, the Court ruled on the first question in an innovative and definitely pro-applicant way, while, in upholding the second objection, it adopted a formalistic and pro-Government approach, to the point that it seems that the judgment suffers of a Dr Jeckyll-Mr Hyde syndrome.

2. Dr Jekyll, The Question of Causation, and the (Ir)relevance of an Established “Harm” for the Purpose of Triggering Positive Obligations

Adopting the last one of the three possible methodological approaches that can be found in the case-law in similar cases (Verein Klimaseniorinnen Schweiz v. Switzerland, para. 458), the Court considered that the first limb of the victim status objection, and the issue of the applicability ratione materiae of Article 2 ECHR, were to be joined to the merits, notably to the question whether the authorities were under a positive obligation to protect the applicant’s lives. To answer, the Court recalled the principle – well-established in the case-law – according to which, for Article 2 to apply in the context of an activity which is, by its very nature, capable of putting an individual’s life at risk, there has to be a ÂŤreal and imminentÂť risk to life. In this regard, it clarified that the term ÂŤrealÂť risk corresponds to the requirement of the existence of a ÂŤserious, genuine and sufficiently ascertainable threat to lifeÂť, while its ÂŤimminenceÂť entails an element of physical proximity of the threat and its temporal proximity (para. 377). It also recalled that in establishing whether the authorities were under a positive obligation to take all appropriate steps to safeguard life, the Court has also considered whether the national authorities ÂŤknew or ought to have knownÂť that the applicants had been exposed to a threat to life (para. 378).

In this case, the Court basically assessed (1) whether the activities entailed a potential harm to human life, and (2) whether the authorities knew about the existence of such risk.

As regards (1) the existence of a potential harm to life, the Court considered that there could be no doubt that the activities in question, which affected all environmental elements such as soil, water, and air, were inherently dangerous activities which could pose a risk to human life, and noted that its seriousness appeared undisputed (para. 385).

As regards (2) whether the authorities knew of such risk, the Court examined the available evidence, which led it to conclude that the national authorities knew about the existence of the dangerous activities from at least the early 1990s (para. 387), and knew that there were raising cancer rates.

In this context, the Court considered that, although the available studies had not disclosed a definite, direct correlation between exposure to the pollution generated by illegal waste disposals and the onset of certain diseases, they raised «credible prima facie concerns» about «serious, potentially life‑threatening health implications» (para. 388). In these circumstances, bearing in mind the «particular nature» of the phenomenon and its causes, the Court was satisfied that there was a real risk for the applicants’ lives and, noting that they had resided, over a considerable period of time, in municipalities identified as affected, considered that the risk was also imminent (para. 390).

This appears to be a real revolution in the Court’s case-law, if compared with the approach previously adopted in similar cases. The Government was right in observing that the previous environmental case-law required, for triggering the applicability of Article 2, evidence of a causal link between the exposure to a specific substance and the onset of a life-threatening disease which is scientifically proved to derive from the exposure to that substance (on the role of a «harm» for triggering positive obligations, see Stoyanova, pp. 58 ff.). For example, in Di Sarno and Others v. Italy (2012, para. 108), the Court noted that scientific studies had reached opposite conclusions as to the existence of a causal link between exposure to waste and an increased risk of developing pathologies, and held that it was unable to conclude that the applicants’ lives or health were threatened, and therefore concluded that Article 2 was not applicable. In Brincat and Others v. Malta (2014, paras. 83-85), all applicants had been exposed for a decade to asbestos. However, the Court found that Article 2 was applicable only in respect of the applicant who had been diagnosed a rare cancer scientifically associated with asbestos, and not those who had only respiratory pathologies and other complications related to asbestos, since in its view it could neither be said that their conditions constituted an inevitable precursor to that disease, nor that their current conditions were life-threatening. Even in Cordella and Others v. Italy (2019), where the Court established that there was scientific evidence that the exposure to the pollutants of the Ilva factory had affected the applicants’ health (para. 163) and raised mortality due to several pathologies (paras. 165-166) it did not examine the case under Article 2 (para. 94). Therefore, this case-law required that the exposure to the toxic substance had already caused a harm to health which was capable of leading to death.

In the light of this case-law, in Cannavacciuolo the Court should have assessed which applicants had been diagnosed with life-threatening diseases which scientifically derive from the pollutants to which they had been exposed, and should have declared Article 2 applicable only in their respect, and not in respect of those applicants who had developed less serious pathologies or no pathologies at all. By contrast, the Court held as follows:

«390. Being satisfied that the applicants were exposed to a risk thus described, the Court does not consider it necessary or appropriate to require that the applicants demonstrate a proven link between the exposure to an identifiable type of pollution or even harmful substance and the onset of a specific life-threatening illness or death as a result of it […].

391.  The Court further takes the view that, in line with a precautionary approach […], given that the general risk had been known for a long time […], the fact that there was no scientific certainty about the precise effects the pollution may have had on the health of a particular applicant cannot negate the existence of a protective duty, where one of the most important aspects of that duty is the need to investigate, identify and assess the nature and level of the risk […]. To find otherwise […] would entail that State authorities could rely on a failure to comply or delays in complying with a duty in order to deny its very existence, thereby rendering the protection of Article 2 ineffectiveÂť.

This is the approach that, in previous cases, the Court had followed under Article 8. Already in 2009, Tatar v. Romania, it held, in the light of the precautionary principle, that the lack of scientific evidence concerning the existence of a causal link between the exposure to certain pollutants and the development of specific diseases could not exclude the existence of the State’s positive obligation to adopt measures to assess the nature of a sufficiently established risk and prevent it from materialising (para. 107). In the cited Di Sarno and Brincat cases, the Court observed that Article 8 allows complaints concerning the exposure to toxic substances to be examined even where the circumstances were not such as to engage Article 2, but clearly affected family and private life (para. 85). Recently, in KlimaSeniorinnen, it clarified that the reason why its Article 8 environmental case-law had not articulated the issue of causality in specific terms was due to the fact that this provision «is triggered not only by actual damage to the health or well-being of an applicant but by the risk of such effects» (para. 437). Therefore, it specified that for a State’s positive obligations to be engaged it is sufficient that there is «evidence of a risk meeting a certain threshold» and «a relationship of causation between the risk and the alleged failure to fulfil positive obligations» (para. 438). Therefore, under Article 8 the causal link has to be established between the State’s omission and the onset of a risk, and not between the risk and the onset of a harm.

In Cannavacciuolo the Court extended this approach to Article 2 and overcame the previous paradoxical approach (on some inconsistencies concerning, more generally, the approach to victim status in respect of Article 2 cases, see Rossi), which was actually at odds with the non-environmental case-law. Think, for example, of domestic violence: in order to trigger States’ positive protective obligations, it is not necessary to wait for potentially life-threatening attacks, death threats being sufficient for the Court to conclude that the authorities were under an obligation to assess the nature and seriousness of the risk and prevent it from materialising (Kurt v. Austria [GC], para. 200). I therefore do not see why, in the environmental context, it should be necessary to wait for an individual to develop a life-threatening disease just to trigger States’s obligations to assess whether the exposure is capable of affecting life and, if the answer is yes, to adopt measures to eliminate the risk.

By contrast, whether an individual suffered a special «harm» (in the form of a life-threatening disease, or has died because of it) as a consequence of the State’s omission is an issue which should be assessed under the question of just satisfaction under Article 41 of the Convention which, in Cannavacciulo, the Court reserved for 2 years (para. 507), holding that it will be examined also taking into account the general measures which will be adopted (para. 508). It must therefore be hoped that, in dealing with this issue, the Court will avoid ruling that the finding of a violation constitutes sufficient redress, and actually engages in the assessment of the actual harm suffered by the applicants.

3. Mr Hyde, and the Court’s Blind Reliance on the Geographical Delimitation of the Affected Area as Determined by the Government

While it concluded that all applicants which had been residing in the municipalities identified as affected were victims, irrespective of (and without even considering) whether they had been diagnosed with life-threatening conditions, the Court noted, in dealing with the second limb of the objection, which was by contrast examined in the admissibility stage, that some applicants, or their deceased relatives, did not reside or had not resided in the municipalities which the Government identified as affected (para. 246).

This actually sufficed to conclude that those applicants were not victims since, in the Court’s view, «the domestic authorities were undoubtedly in possession of relevant evidence and information which led them to single out the municipalities in question and it is not for the Court to call into question such an assessment, which the authorities were better placed to make» (para. 247; emphasis added).

The Court had done the same in the past, in Cordella, where, however, it observed that the applicants who lived outside the affected area determined by the Government had not provided elements capable of challenging its extension (para. 103). By contrast, in Canavacciuolo the situation was different. The applicants, both in replying to the Government’s objection (para. 248), and in their complaints on the merits of the case (paras. 303 and 313), had strongly argued that the mapping was not sufficient, as there were many municipalities that were affected by the same problems, and that the authorities had not done enough to identify contaminated lands.

This begs the question of how the Court should rule on the victim status issue where the very same facts on which such a decision must be based are contested between the parties.

In general, when the facts concerning the establishment of victim status are disputed, the Court ascertains whether the applicants have furnished prima facie evidence; if that is the case, the burden of proof should shift to the Government (N.D. and N.T. v, Spain [GC], para. 85). In environmental cases, taking into consideration their evidentiary difficulties, the Court has had particular regard to the findings of the domestic courts and other competent authorities in order to conclude that the applicants were affected by the situation complained of (Taskin and Others v. Turkey, 2004, paras. 113-114; Giacomelli v. Italy, 2006, para. 89; Hardy and Maile v. the United Kingdom, 2012, para. 191). However, as clarified in Tatar v. Romania, the absence of internals decision or official documents indicating the degree of risk posed to human health cannot be held to be fatal to a claim, the Court being allowed to rely to the applicant’s allegations and the supporting evidence (paras. 93-97). The Court has also held that it cannot rely blindly on the decisions of the domestic authorities, especially when they are obviously inconsistent or contradict each other. In such a situation, it has to assess the evidence in its entirety (Dubtska and Others v. Ukraine, 2011, para. 107; Pavlov and Others v. Russia, 2022, para. 62; Kotov and others v. Russia, 2022, para. 102).

In Canavacciuolo, as noted by the same Court (para. 247) the Government’s geographical delimitation had been contradicted by an Italian Senate’s Committee which, relying on the complexity of the phenomenon and its diffusion, had concluded that «this did not mean that certain areas which had not been included on this list were unaffected» (para. 73). Given these contradictory findings, and given that they had not even by assessed by independent domestic courts (due to the absence of effective domestic remedies, as determined by the same Court), the Court case-law required not to blindly rely on them.

The problem is even more serious if one considers that, when assessing in the merits whether the domestic authorities had complied with their duty to identify the affected areas and the nature and extent of the contamination (para. 395), the Court noted, inter alia, that other authorities had observed that the risk had been underestimated (para. 404) and that some other areas were potentially affected (para. 405), found the measures taken by the domestic authorities to identify the areas to be insufficient (paras. 409-410), and noted that new evidence proved that new affected sites continued to be discovered (para. 411). The Court therefore found a breach of Article 2 also on this ground, and, under Article 46, ordered general measures aimed at better identifying the affected areas (paras. 495-496).

In this context, I really do not see how the Court could presume, in the victim status assessment, that the authorities ÂŤundoubtedlyÂť did their job well.

4. Reconciling Dr Jeckyll and Mr Hyde: The Logic Behind the Court’s Approach and the Future Developments

Having said all the above, the principle behind the Court’s approach seems nonetheless understandable.

Normally, in order to claim victim status, it is for the applicants to provide evidence capable of satisfying the Court that they were affected by the violation complained of (N.D. and N.T. v. Spain [GC], para. 85). In Canavacciuolo, like in the other cases cited above, the Court somehow exempted the applicants from providing this evidence where the fact that they had been affected had been already acknowledged by the domestic authorities, therefore applying some sort of presumption on the basis of the Government acknowledgment. However, absent such acknowledgment, it would be again for the applicants to provide such evidence. In the present case, the Court seems to have considered that the applicants did not satisfy their burden of proof, since it held that it had no sufficient evidence to challenge the Government’s delimitation of the area (para. 248).

However, it remains that, in the circumstances of the case, the Court could have concluded that the applicants had provided sufficient evidence. As the Senate’s Committee observed, the pollutants at issue could spread very easily in many different ways, and the applicants had replied to the Government’s objection by highlighting that (1) the pollution in question could cross boundaries; (2) certain municipalities not included in the list adjoined, and in certain cases were surrounded, by municipalities included; and (3) other municipalities, not included, were nonetheless included among the so-called «sites of national interest» requiring decontamination (para. 248). Considering the precautionary approach advocated by the Court in this case, it would have been possible to reach the conclusion that a positive obligation was also triggered in their respect.

Moreover, considering the case-law cited above, the Court could have examined the complaints of those applicants under Article 8, in respect of which the applicability threshold is lower and which does not require evidence of an actual harm to the individual’s health: due to the seriousness of the situation, as ascertained by the Court in the same judgment, it is indeed undisputable that at least those applicant’s «quality of life» was affected. It is possible that the Court did not do so because it has already recognised that almost 3 millions of individuals were victims of the violation, and it did not want to open the gates to further applications. However, provided that the principles governing victim status are complied with and that the prohibition of actio popularis is not breached, this «floodgates argument», which is based on the logic that «if it is very costly to hear the applications of all victims, then those victims should be deemed not to have a legal right», is «foreign to the Convention system» and has not basis in it (Letsas).

It also remains that, if this is the rationale behind it, and since the Court has expressly found that the violation in question concerns a continuing situation which has not ceased to date (para. 283), individuals residing in areas in proximity to the affected one would be entitled to lodge further applications and try to demonstrate, by also relying on the findings of the Court in this judgment, that they are also affected by and therefore victims. The same Court held, in the part concerning the necessary general measures, that the situation is capable of affecting other individuals (para. 492).

In any case, from an overall perspective, it appears that the judgment significantly and positively developed the Court’s case-law concerning the applicability of Article 2, by adopting an approach that, as the same Court observed (para. 381), truly safeguards the right to life in a practical and effective way (Zirulia, more generally, on the need to adopt an approach to standing capable of guaranteeing Convention rights in a practical and effective way, see Acconciamessa).

It is true that the Court justified this development by relying on the alleged «exceptionality» of the situation at stake (para. 384), in order to somehow underestimate the innovative approach and the overruling of the previous one. However, the reasons provided by the Court to demonstrate this exceptionality of this case seem insufficient to justify a special treatment if compared from other cases concerning environmental harm capable of threatening health and life. On the one hand, the Court argued that this case was different from previous cases, which allegedly only concerned «a single, identified, circumscribed source of pollution or activity causing it, and a more or less limited geographical area»; however, the Court carefully avoided to cite the case of Cordella, and it can hardly be disputed that that case was as serious as the Terra dei fuochi situation. On the other hand, it is hard to see how the alleged special features of this case – notably, the fact that it concerned «a particularly complex and widespread form of pollution occurring primarily, but not exclusively, on private land» which, moreover, «concerns activities carried out by private parties, namely organised criminal groups, as well as by industry, businesses and individuals, beyond the bounds of any form of legality or legal regulation» – can have an impact on the question whether the activities in question entail a risk for human life.

It must therefore be hoped that the Court will consider this case as a real case-law development, and not as an exception, and that this new approach will be followed also in other cases concerning life-threatening environmental harm.

It is true that it is still possible for the Government to request the referral of the case to the Grand Chamber. However, one might first wonder whether they will do it, since they already started implementing the judgment (see, for example, here). Moreover, even if the case goes to the Grand Chamber, the latter would, in the worst scenario, reestablish the previous approach, and conclude that Article 2 is not applicable, and that the case must be assessed under Article 8, which enshrines very similar obligations. Since the Government would be found to be in any case in breach of the Convention, one can wonder whether it would be a good move for them (in the face of public opinion) to postpone the adoption of the necessary measures on the basis of abstract legal disquisitions on which Convention provision should apply, after already almost 40 years of their inaction in respect of the situation.

Data articolo:Fri, 28 Feb 2025 08:00:00 +0000
Diritto dello spazio a cura di Margherita Penna
Il “rosso pianeta bolscevico e traditor”: considerazioni sul principio di non-appropriazione alla luce delle recenti affermazioni del Presidente Trump

Margherita Penna (UniversitĂ  degli Studi di Torino/Centro Alti Studi per la Difesa)

Nel suo Prolegomeni al diritto internazionale cosmico (1960), Rolando Quadri, riflettendo sulla natura dei corpi celesti, giĂ  escludeva qualsiasi possibilitĂ  che si potesse parlare “di occupazioni simboliche mediante lancio di bandiere, visite di esploratori, etc..” (Quadri, p. 69). Aggiungeva altresĂŹ che la quaestio iuris non fosse tanto a chi appartenesse lo spazio, bensĂŹ quali attivitĂ  fossero permesse. Al contrario, il discorso internazionale degli ultimi anni appare ancora orientato proprio a questioni di esclusivitĂ  spaziale, come dimostra il discorso inaugurale del neoeletto Presidente statunitense Donald J. Trump.

Già nel 1969, a qualche ora dalla notizia dell’allunaggio dell’Apollo 11, la domanda che tutti si ponevano era proprio a chi sarebbe appartenuta la Luna all’indomani del posizionamento della bandiera degli Stati Uniti d’America sulla superficie lunare, come se l’allunaggio fosse elemento sufficiente per poter stabilire la propria sovranità territoriale. Nelle prime decadi successive al lancio del Sputnik I (URSS), primo satellite artificiale ad arrivare in orbita, la produzione normativa della comunità internazionale – attraverso il foro offerto dalle Nazioni unite – era stata sufficientemente prolifica, al punto da portare alla conclusione di cinque trattati sullo spazio: il Trattato sullo spazio extra atmosferico (1967); l’Accordo sul salvataggio degli astronauti (1968); la Convenzione sulla responsabilità internazionale per danni (1972); la Convenzione sulla registrazione degli oggetti spaziali (1976); infine, l’Accordo sulla Luna (1984). In particolare, il Trattato sullo spazio extra atmosferico (OST) identificava con sufficiente chiarezza quali fossero i diritti e gli obblighi di ogni Stato che si fosse cimentato nell’impresa spaziale da lì in avanti. Tuttavia, rispetto a tali trattati, alcuni problemi interpretativi e applicativi continuavano a pervadere il dibattito internazionale; fra questi l’interpretazione del principio di non-appropriazione.

Questo principio rappresenta il parametro sistemico attraverso cui leggere le altre norme di diritto internazionale dello spazio. Se infatti il diritto internazionale è fondato su un paradigma a base territoriale (Focarelli, p. 78), l’assenza di sovranità territoriale – ciò che per primo intende stabilire il principio di non-appropriazione – sopra un’area in cui si sviluppano attività statali diventa per forza di cose l’elemento definitorio dell’intero sistema giuridico. Codificato all’art. II del OST, il principio di non-appropriazione afferma che lo spazio, inclusi i corpi celesti non possono essere oggetto di appropriazione nazionale, «by claim of sovereignty, by means of use or occupation, or by any other means»; ha ora acquisito carattere consuetudinario. La norma nega, da una parte la possibilità di reclamare la propria sovranità e dall’altra nega altresì ogni ulteriore eventuale modalità di acquisizione territoriale nello spazio e dello spazio. Stabilire la natura non appropriativa dello spazio e dei corpi celesti rimane quindi la migliore garanzia giuridica per assicurare il rispetto del principio del libero uso ed esplorazione dello spazio (art. I OST). La presenza di questa clausola sottende la volontà degli Stati di tutelare quanto più possibile lo spazio da attività club-based e garantire a tutti gli Stati – a prescindere dal loro grado di sviluppo tecnologico – il godimento di tali diritti nello spazio. Gli Stati Uniti d’America sono stati e rimangono oggi il primus inter pares fra i cosiddetti space-faring countries (per una classificazione, Oniosun e Klinger); perciò, non dovrebbe sorprendere la recente dichiarazione del neoeletto Presidente Donald J. Trump.

In occasione del suo discorso inaugurale il Presidente ha infatti dichiarato che gli Stati Uniti “will pursue our manifest destiny into the stars, launching American astronauts to plant the Stars and Stripes on the planet Mars“. Tralasciando l’enfasi retorica, l’affermazione del neoeletto Presidente conferma e rafforza gli obiettivi statunitensi di politica spaziale degli ultimi 15 anni. La presa di posizione di Donald Trump è stata poi supportata dalle affermazioni di Elon Musk, fondatore di Space X e oggi anche amministratore del nuovo Department of Government Efficiency (dall’autoesplicativo acronimo DOGE), il quale ha dichiarato l’intenzione della sua azienda di accelerare la realizzazione del progetto di colonizzazione di Marte. In occasione della cerimonia di insediamento di Donald Trump, Elon Musk ha poi nuovamente ribadito il proprio appoggio al piano presidenziale, sottolineando come gli Stati Uniti si stanno imbarcando in una nuova golden age.

Sono affermazioni e prese di posizione che fanno eco ad un approccio ormai collaudato del governo statunitense: tentare sistematicamente di sfidare l’impianto normativo internazionale che regola i diritti e gli obblighi degli Stati nelle loro attivitĂ  spaziali, fornendo una propria interpretazione dei fondamenti del diritto internazionale dello spazio, in particolare del principio di non-appropriazione e i suoi corollari. Se infatti l’affermazione circa il “manifest destiny” di collocare la bandiera statunitense sulla superficie di Marte non è altro che un richiamo all’impresa dell’Apollo 11, essa va contestualizzata nel piĂš ampio progetto politico statunitense.

A partire dal 2015, con la promulgazione del Commercial Space Launch Competitiveness Act, il governo statunitense ha iniziato a garantire ai propri cittadini il diritto di proprietà sopra le risorse recuperate da asteroidi e corpi celesti, nonostante il diritto internazionale sia silente al riguardo. Pur stabilendo ciò, lo stesso atto asseriva la posizione contraria degli Stati Uniti a qualsiasi rivendicazione di sovranità sui corpi celesti. Successivamente, a partire dalla prima presidenza Trump, gli obiettivi di politica spaziale sono stati maggiormente sviluppati. Dapprima nella Space Policy Directive – 1 (2017), la quale per la prima volta fa riferimento a missioni esplorative di lungo-termine su Marte e altri corpi celesti e infine nell’ Executive Order 13914 (2020), il quale dichiara apertamente il rifiuto dell’Amministrazione Trump della natura di res communis omnium della Luna e degli altri corpi celesti. La posizione statunitense pare anzi essersi evoluta in tempi recenti verso una concezione dello spazio come res nullius. A questo punto, è necessario fare un po’ di chiarezza su queste categorie e come è possibile acquisire titolo di sovranità secondo il diritto internazionale e come invece non lo è per quanto concerne lo spazio (ma dovrebbe esserlo secondo la posizione statunitense).

Per res nullius si intende un’area non soggetta a sovranitĂ  e su cui vi sia la possibilitĂ  di esercitare un controllo effettivo (criterio dell’effettivitĂ ). Fra le modalitĂ  di acquisizione originarie, attraverso cui tale esercizio di sovranitĂ  è possibile, vi è storicamente l’occupazione (Romano, p. 165, Fassbender et al. p. 851); per poterla definire tale, è necessario che vi sia appunto un territorio nullius, l’animus possidendi del reclamante e che sia rispettato un grado minimo di effettivitĂ  (sentenza arbitrale sull’isola di Palmas, 1928; sentenza sullo status giuridico della Groenlandia orientale, CPGI, 1933), variabile alla luce delle particolaritĂ  territoriali dell’area (come evidenzia O’Connell, p. 471 ss.). Tuttavia, sussiste un requisito minimo assoluto per cui si deve poter ritenere il territorio sotto il controllo assoluto dello Stato reclamante. Storicamente, la maggioranza dei tentativi di reclamazione di sovranitĂ  secondo la logica del requisito minimo hanno interessato occupazioni simboliche di isole nel mare (l’isola di Clipperton occupata simbolicamente nel 1858 da un ufficiale francese e poi nuovamente nel 1897 dal Messico; ancora le isole Caroline, simbolicamente occupate dalla Spagna nel 1686 e poi effettivamente occupate dalla Germania nel 1885; Quadri, p. 710 ss.).  Nel caso di specie, pur non essendo lo spazio considerato res nullius, e benchĂŠ in certi contesti un’affermazione di sovranitĂ  possa essere “little more than symbolic” (v. Shaw, p. 380), è dubbio che la semplice collocazione di una bandiera possa integrare tale casistica.

Viceversa, la categoria res communis include quelle aree non soggette a titolo di sovranità e che non sono suscettibili di controllo, a nessun grado. In queste aree permane libertà di accesso, di esplorazione ed utilizzo, senza tuttavia poterne dichiarare la propria sovranità e nella misura in cui non pregiudica le rispettive libertà degli altri attori. Che lo spazio rientri in questa categoria è indubbio se si considera l’insieme delle risoluzioni dell’Assemblea generale dell’ONU (es. risoluzione 1962 (XVII), 1721 (XVI) e 1884 (XVIII)) che hanno preceduto la successiva ratifica del OST.

Il concetto di res communis non va a sua volta confuso con quello di patrimonio comune dell’umanità, il quale impone una regolamentazione rigorosa dell’esplorazione e dello sfruttamento dell’area sottoposta a questo regime, la quale non soltanto non è soggetta ad alcun titolo di sovranità, ma i benefici derivanti da un suo utilizzo devono essere distribuiti secondo un criterio di equità fra tutti gli Stati. Seguendo l’esempio della UNCLOS e l’istituzione dell’Autorità internazionale per i fondali marini, questa categoria è stata introdotta nell’Accordo sulla Luna, prevedendo addirittura in futuro la creazione di un regime, pari a quello per l’alto mare. Di fronte al numero assai limitato di ratifiche ricevute dall’Accordo, non si possono tuttavia ritenere le disposizioni consuetudinarie. In ogni caso, è pacifico concludere che lo spazio non è mai stato res nullius e che il regime di res communis non soltanto rimane valido ma ha anche valore consuetudinario (sul punto es. Paliouras).

A rafforzare la visione statunitense, da ultimo si sono aggiunti gli accordi Artemis, promossi dalla NASA nel 2020 (oggi contano 53 Stati firmatari). Seppur non vincolanti, gli accordi enucleano la strategia statunitense per la nuova corsa alla Luna e oltre, portata avanti con il Programma Artemis. Nonostante ne venga dichiarata la compatibilitĂ  con i principali strumenti di diritto internazionale dello spazio, da alcune disposizioni traspare un’incompatibilitĂ  di fondo con i fondamenti di questo settore giuridico. Tra tutti risulta evidente lo scontro con il principio di non-appropriazione. Da un lato, gli accordi Artemis ufficializzano la posizione precedentemente espressa per cui l’estrazione di risorse spaziali non costituisce intrinsecamente appropriazione nazionale ai sensi dell’art. II OST.  Dall’altro, introducono il concetto di patrimonio spaziale e il diritto a stabilire zone di sicurezza eventualmente intorno ad esso. Con il primo termine si fa riferimento all’impegno degli Stati firmatari degli accordi a preservare eventuali siti, oggetti e artefatti o altre evidenze sui corpi celesti storicamente significativi. Pur richiamandone in parte la formulazione, esso non è in alcun modo sovrapponibile al concetto di patrimonio comune dell’umanitĂ , mancando la natura partecipativa di quest’ultimo.  Se la formulazione del concetto da sola non solleva questioni di legittimitĂ  alla luce del principio di non-appropriazione, lo stesso non si può concludere se si considerano le modalitĂ  proposte dagli accordi per procedere a tale conservazione e tutela. Gli accordi introducono infatti il concetto di zona di sicurezza, assente fino ad oggi nel diritto internazionale dello spazio. Al fine di evitare “harmful intereference” con le proprie attivitĂ  spaziali e per assicurare altresĂŹ la conservazione di eventuali siti di atterraggio di rilievo, gli accordi consentono di delimitare delle zone di sicurezza, di fatto limitando il godimento delle libertĂ  di cui all’art. I del OST e per cui non vengono definiti nĂŠ limiti geografici, tantomeno temporali (sul punto v. Boley e Byers). É bene però rammentare che gli accordi non sono altro che un “political commitment”, cosĂŹ come definito all’interno degli stessi e per questo motivo pare quanto meno dubbia la loro idoneitĂ  a creare obblighi giuridici. Tale indeterminatezza appare in linea con quanto sopra detto circa la crescente presa di posizione statunitense per cui i corpi celesti sono res nullius e per questo passibili di occupazione.

Il crescendo di dichiarazioni e prese di posizione del governo statunitense mette in luce una strategia di fondo chiara: da una parte scardinare l’impostazione giuridica per cui lo spazio vuoto e i corpi celesti sono caratterizzati dall’assenza di sovranità territoriale; dall’altra incentivare una prassi e un’interpretazione alternativa del principio di non-appropriazione fra i membri della comunità internazionale, cosiddetti like-minded. L’obiettivo è creare una coalizione multilaterale che possa continuare a guidare la sfida contro i propri competitors, Cina e Russia (Strategic Framework for Space Diplomacy, p. 5, 14). Nonostante sia condivisibile l’idea che il diritto internazionale non sia un blocco immutabile di norme, ma che anzi evolva alla luce del modificarsi della prassi degli Stati, è indubbio che il riconoscimento dello spazio come non suscettibile di appropriazione da parte di nessun membro della comunità internazionale è ciò che ha permesso uno sviluppo esponenziale delle attività spaziali e ha prevenuto in maniera efficace una nuova corsa coloniale per quasi sessant’anni. Se poi le recenti affermazioni di Donald Trump sulla conquista di Marte si leggono alla luce del crescente clima di incertezza e polarizzazione che aleggia intorno al multilateralismo spaziale (e non solo) – di cui la pianificata dismissione della Stazione spaziale internazionale per il 2030 e il progetto di stazione lunare russo-cinese (ILRS) ne sono esempi lampanti – si può comprendere come sia imperativo che esse rimangano tali: dichiarazioni roboanti a celebrazione di una campagna elettorale vincente.

Data articolo:Tue, 11 Feb 2025 16:30:00 +0000
Diritti Umani a cura di Ludovica D'Apote
Diritto a un Ambiente Salubre e Democrazia Ambientale: Il Caso La Oroya tra Dimensione Locale e Globale

Ludovica D’Apote (UniversitĂ  degli Studi di Milano)

Con sentenza pubblicata il 22 marzo 2024, la Corte interamericana dei diritti umani (di seguito, Corte IADU) ha accertato la responsabilità del Perù per la violazione di diversi diritti garantiti dalla Convenzione americana sui diritti umani (d’ora in avanti, Convenzione americana o Convenzione) ai danni di ottanta abitanti di La Oroya. In particolare, le vittime lamentavano la violazione dei diritti a un ambiente salubre, alla salute e integrità fisica, alla vita, all’informazione e alla partecipazione politica, all’infanzia e alla protezione giudiziale, rispettivamente disciplinati agli articoli 26, 5, 4.1, 13, 23, 19, 8.1, e 25 della Convenzione. Tali violazioni erano riconducibili all’inquinamento atmosferico provocato dall’attività del complesso metallurgico locale e all’assenza di un’adeguata regolamentazione e supervisione statale della stessa (Corte IDH. Caso Habitantes de La Oroya Vs. Perú. Excepciones Preliminares, Fondo, Reparaciones y Costas. Sentencia de 27 de noviembre de 2023. Serie C No. 511, le cui principali innovazioni sono riportate nei commenti di Ortega Franco e Milián e di Viveros-Uehara).

Il caso esaminato rileva considerevolmente in quanto contribuisce al consolidamento del diritto a un ambiente salubre nell’ambito del sistema interamericano di tutela dei diritti umani, mettendo al contempo in evidenza il ruolo cruciale delle associazioni e organizzazioni della società civile nella protezione degli interessi collettivi.

In questo senso, esso presenta profonde implicazioni, capaci di trascendere il solo contesto interamericano e permeare le attuali discussioni inerenti al riconoscimento del diritto a un ambiente salubre come diritto umano autonomo.

Esso si inserisce, infatti, nel contesto di una significativa prassi giurisprudenziale in tema di tutela dei diritti umani rispetto agli effetti nocivi derivanti da degrado ambientale e cambiamento climatico, della quale si terrà conto anche nell’ottica di stabilire l’apporto che la decisione in commento ha dato e potrà dare al suo sviluppo.

A quest’ultimo riguardo va ad esempio segnalata la richiesta di parere avanzata il 9 gennaio 2023 proprio alla Corte IADU da Colombia e Cile, volta a chiarire gli obblighi degli Stati previsti nella Convenzione e negli altri trattati interamericani in relazione all’emergenza climatica.

Il presente contributo intende esaminare tali aspetti, soffermandosi inoltre sul possibile impatto di questa decisione su altri sistemi di protezione dei diritti umani, in particolare quello europeo.

1. Le origini della controversia

Da decenni, gli abitanti di La Oroya, piccola località della Sierra Central del Perù, sperimentano sulla propria pelle una condizione di degrado ambientale a tal punto intensa da aver trasformato la cittadina stessa in un simbolo delle devastanti conseguenze dell’inquinamento di origine antropica.

Al complesso metallurgico locale, insediato nel 1922 e di proprietà privata (eccettuato il periodo 1974-1997), numerosi studi hanno attribuito la responsabilità per il 99% dei contaminanti atmosferici e per concentrazioni di piombo nel sangue degli abitanti tre volte superiori al limite stabilito dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Dato un simile livello di contaminazione ambientale, la cittadina è stata catalogata come una delle dieci città piÚ inquinate al mondo (par. 76 e 77 della sentenza) e sacrifice zone (par. 180).

Le denunce formulate nel 2002 da alcuni abitanti di La Oroya contro il Ministero della Salute hanno trovato accoglimento nel 2006, quando il Tribunale Costituzionale peruviano ha ordinato misure correttive. Nello stesso anno, di fronte all’inerzia statale, associazioni quali Asociación Interamericana para la Defensa del Ambiente (AIDA), Asociación Pro Derechos Humanos (APRODEH) ed Earthjustice hanno presentato una petizione alla Commissione interamericana dei diritti umani (la Commissione), che nel 2021 si è pronunciata nel merito, accertando la responsabilità del governo peruviano e, in ossequio agli articoli 35 del Regolamento della Corte e 61 della Convenzione americana, deferendo il caso alla Corte.

2. La decisione della Corte: il consolidamento del diritto a un ambiente sano

Gli organi preposti al controllo sul rispetto dei diritti umani nell’ambito del sistema interamericano, Corte e Commissione, hanno storicamente adottato un approccio progressista in merito ai profili oggetto di analisi, specialmente in relazione alle popolazioni indigene, dato il legame tra queste e l’ambiente circostante.

L’articolo 11 del Protocollo di San Salvador – protocollo addizionale alla Convenzione americana dei diritti umani, relativo ai diritti economici, sociali e culturali – che sancisce che ognuno ha diritto di vivere in un ambiente sano, è stato per lo più interpretato come corollario del diritto alla proprietà ex articolo 21 della Convenzione.

Per le comunità indigene, che svolgono un ruolo chiave nella conservazione della natura – come sottolineato nel Principio 22 della Dichiarazione di Rio su Ambiente e Sviluppo – la proprietà si estende tanto al possesso delle terre ancestrali quanto alle risorse naturali in esse presenti, essenziali alla sopravvivenza fisica ma anche spirituale delle comunità, ed è quindi effettivamente garantita nella misura in cui tali terre risultano scevre di contaminazioni, come confermato, tra gli altri, nei casiComunidad Indígena Yakye Axa Vs. Paraguay (par. 137), Comunidad Indígena Sawhoyamaxa Vs. Paraguay (par. 118 e 121),Pueblo Saramaka Vs. Surinam (par. 154) e, più recentemente, Comunidades Indígenas Miembros de la Asociación Lhaka Honhat (Nuestra Tierra) Vs. Argentina, di seguito Lhaka Honhat (v. infra).

A fronte di questa prassi, il caso La Oroya segna un’importante evoluzione: per la prima volta, la Corte ha riconosciuto la violazione statale dei diritti umani, incluso il diritto a un ambiente sano, di una comunità non indigena per via di una grave contaminazione ambientale.

Il diritto a un ambiente salubre, inoltre, viene definitivamente disancorato da quello alla proprietà ex articolo 21, cessando di essere considerato strettamente funzionale all’esercizio e al godimento di quest’ultimo. In tal modo, la Corte IADU ha consolidato una linea interpretativa già avviata con il Parere Consultivo OC-23/17 (di seguito, Parere) e il caso Lhaka Honhat. Questo sviluppo, come meglio diremo, ha un certo peso anche in rapporto al sistema europeo di protezione dei diritti umani, in cui una simile autonomia non è stata ancora formalmente riconosciuta.

Le conclusioni raggiunte dalla Corte nel caso in esame si inseriscono, come detto, in un percorso già delineato con il Parere, in cui essa aveva riconosciuto, per la prima volta nella sua giurisprudenza, il diritto a un ambiente salubre come autonomo e direttamente azionabile in giudizio, annoverandolo tra quelli protetti da una norma già esistente: l’articolo 26 della Convenzione americana, riguardante i diritti socioeconomici e culturali (par. 56 del Parere).

Per giungere a tale riconoscimento, come esaustivamente illustrato da Lima, la Corte aveva interpretato l’articolo 26 in combinato disposto con l’articolo 29 della Convenzione che, alla lettera d), vieta interpretazioni restrittive tali da escludere o limitare l’effetto di altri strumenti internazionali di tutela dei diritti umani, come la Carta dell’Organizzazione degli Stati americani (OSA), richiamata dallo stesso articolo 26 (par. 57). Questa lettura sistematica ha permesso alla Corte di estendere la propria competenza anche ad altri strumenti internazionali, quali il Protocollo di San Salvador, superando i limiti previsti dall’articolo 19.6 dello stesso.

Quest’ultimo prevede la diretta azionabilità in giudizio dei soli diritti di natura socioeconomica alla libertà sindacale e all’istruzione, escludendo così eventuali ricorsi individuali per le violazioni del diritto a un ambiente sano.

Nel Parere, invece, la Corte aveva finalmente riconosciuto le questioni ambientali sottoposte alla sua attenzione come tematiche suscettibili di trattazione autonoma in virtù dell’articolo 26 della Convenzione, superando l’approccio tradizionale – di cui si è detto – che le inquadrava soltanto in relazione ad altri diritti, come quelli alla vita o alla proprietà.

Tale indirizzo, peraltro, era già stato recepito nel caso Lhaka Honhat del 2020, in cui la Corte aveva ricondotto il diritto a un ambiente sano all’alveo dell’articolo 26 (par. 202) e dichiarato la responsabilità dello Stato argentino per la violazione dello stesso, oltre che di quelli a esso correlati e parimenti ricavati dall’articolo 26, come il diritto all’acqua, al nutrimento adeguato e alla partecipazione alla vita culturale (par. 289).

Nel caso La Oroya, la Corte ha preliminarmente affermato la propria competenza ratione materiae sulle controversie relative all’articolo 26 della Convenzione (par. 24-28), respingendo l’eccezione sollevata dallo Stato convenuto, fondata sull’anzidetto limite costituito dall’articolo 19.6 del Protocollo di San Salvador (par. 19).

Basandosi sui precedenti menzionati, a supporto della propria tesi la Corte ha adottato un’interpretazione sistematica e teleologica di diverse norme di diritto internazionale, coerentemente con il giĂ  citato articolo 29 della Convenzione americana, che fa espresso riferimento alle norme di diritto internazionale ai fini dell’interpretazione dello strumento e con l’articolo 31(3)(c) della Convezione di Vienna sul diritto dei trattati, che impone di considerare ogni norma di diritto internazionale rilevante tra le parti nell’interpretazione di un trattato, in questo caso la Convenzione. In particolare, essa ha riconosciuto che le norme socioeconomiche contenute nella Carta dell’OSA (segnatamente gli articoli 30-34, in relazione al diritto a un ambiente salubre), richiamate dall’articolo 26 della Convenzione, costituiscono strumenti normativi di riferimento per l’interpretazione della stessa e rientrano nel quadro giuridico di competenza della Corte ex articoli 62 e 63 della Convenzione.

Dopo aver ribadito che il diritto a un ambiente salubre risulta a pieno titolo incluso nella norma, la Corte ha dunque individuato le diverse componenti in cui esso si articola. Per quanto concerne gli aspetti procedurali, su cui si tornerĂ , questi si sostanziano nell’accesso alle informazioni, nella partecipazione politica e nell’accesso alla giustizia; sotto il profilo sostanziale, gli Stati sono tenuti a proteggere la natura non tanto in funzione della sua utilitĂ  per gli esseri umani, quanto per la sua importanza per tutti gli organismi viventi sul pianeta (par.118). 

Venendo, invece, ai doveri che discendono dalla norma, i giudici, rifacendosi ai Guiding Principles on Business and Human Rights (par. 110) e ai principi di prevenzione e precauzione in materia ambientale, hanno ribadito l’obbligo degli Stati di prevenire violazioni dei diritti umani causate da imprese, pubbliche o private, operanti sotto la loro giurisdizione. L’obbligo implica il dovere di regolamentazione e supervisione delle attività industriali, anche in assenza di certezza scientifica sul loro impatto sull’ambiente, secondo un criterio di dovuta diligenza, che in questo caso appare più rigoroso dato l’alto rischio legato all’uso di sostanze inquinanti (par. 126-127). L’obbligo di prevenire i danni ambientali si sostanzia altresì come parte integrante non solo del dovere di tutela dell’ambiente, ma anche di protezione dei diritti alla salute, alla vita e all’integrità fisica (par. 262).

Alla luce delle considerazioni esposte – tra cui l’affermazione della Corte della propria competenza e l’inclusione del diritto a un ambiente sano, e degli obblighi che ne discendono, tra quelli tutelati dall’articolo 26 – l’organo giudicante ha concluso che il Perù, consapevole dell’inquinamento prodotto dal complesso metallurgico e dei relativi effetti nocivi, non avendo ottemperato ai suoi obblighi di regolamentazione e supervisione dell’attività dello stabilimento, ha così violato il diritto a un ambiente sano, alla salute, all’integrità fisica e alla vita, rispettivamente enucleati agli articoli 26, 5, 4.1 della Convenzione (par. 266).

Un aspetto innovativo del caso La Oroya risiede nel fatto che la Corte ha sensibilmente travalicato i confini – giĂ  di per sĂŠ alquanto pionieristici – tracciati dal Parere e dal precedente Lhaka Honhat. Essa non solo, giova ripetere, ha svincolato il diritto a un ambiente salubre da altri, ma ha addirittura prospettato la possibile natura cogente del corrispondente obbligo di protezione dell’ambiente, in virtĂš del riconoscimento del diritto da parte di numerosi Stati (par. 129), oltre che in vari strumenti internazionali, quali il giĂ  citato Protocollo di San Salvador (art. 11), la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (art. 24), la Carta araba dei diritti dell’uomo (art. 38) e la Risoluzione 76/300 dell’Assemblea Generale dell’ONU del 2022.

I giudici hanno suggerito che la protezione dell’ambiente, proprio in ragione di questa ampia affermazione a livello normativo, costituirebbe una di quelle norme imperative e inderogabili, di cui all’articolo 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, poste a tutela di valori fondamentali della comunità internazionale.

Quest’ultimo passaggio, tuttavia, costituisce affermazione piuttosto discussa, come dimostrano le opinioni separate dei giudici Manrique, Mudrovitsch e Ferrer Mac-Gregor Poisot (par. 96-98), su cui v. Trincado Vera.

Anche a fronte del carattere isolato di questa conclusione, è innegabile l’importanza che essa potrebbe avere per lo sviluppo della prassi giurisprudenziale successiva, come tra l’altro ha già avuto modo di dimostrare la stessa Corte nel recente caso Pueblos Rama y Kriol, Comunidad Negra Creole Indígena de Bluefields y otros Vs. Nicaragua. Al par. 417, essa ha ribadito che la protezione ambientale richiede progressivo riconoscimento come norma di ius cogens.

Sebbene dunque, su quest’ultimo aspetto, si rilevi un atteggiamento non unanime della Corte, va però sottolineato, in positivo, come rispetto ad altre questioni – quali l’accertamento della responsabilità del Perù per la violazione del diritto a un ambiente sano – si sia registrata una maggioranza più consistente in confronto ad altri casi (par. 393.3), come la vicenda Lhaka Honhat (par. 370.3). Ancor più consistente è, nel caso Rama y Kriol poc’anzi evocato, la maggioranza nella dichiarazione di responsabilità del Nicaragua per la violazione del diritto a un ambiente salubre contenuto nell’articolo 26, contro cui si è espressa solamente la giudice Pérez Goldberg (par. 530.7). Appare evidente, dunque, come il caso La Oroya abbia già iniziato a dispiegare concretamente i suoi effetti, contribuendo a plasmare prospettive interpretative progressivamente orientate alla tutela ambientale.

La prassi della Corte interamericana in materia di riconoscimento del diritto umano a un ambiente salubre, come si anticipava, appare particolarmente significativa anche alla luce di un raffronto con la diversa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU). La Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), com’è noto, non sancisce espressamente l’esistenza del diritto a un ambiente salubre come diritto autonomo. Ciò non ha tuttavia impedito alla Corte EDU di sviluppare un’ampia casistica in materia di responsabilitĂ  ambientale e di ricavare un diritto all’ambiente tramite interpretazione, in particolare, dei diritti alla vita (art. 2 CEDU) e al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU) come illustra, primo fra tutti, il caso LĂłpez Ostra v. Spain (par. 51). Allo stesso tempo, casi quali Kyrtatos v. Greece, Atanasov v. Bulgaria e FägerskiĂśld v. Sweden, evidenziano come non ogni situazione di degrado ambientale costituisca violazione ai sensi degli articoli 2 o 8 CEDU. Nel contesto europeo, dunque, l’accertamento della responsabilitĂ  statale per danni ambientali avviene piĂš faticosamente, poichĂŠ subordinato a requisiti piĂš stringenti e rigorosi, in particolare riguardanti la soglia di gravitĂ  del danno e lo status di vittima ex articolo 34 CEDU (al riguardo v., ex multis,Fadeyeva v. Russia, par. 70).

3. Dalla democrazia ambientale alla giustizia climatica

Come evidenziato dalla Corte IADU nel caso in esame, il diritto a un ambiente sano si articola in una parte sostanziale e in una procedurale (su tale classificazione, v. Okowa e Peters). I diritti procedurali costituiscono il fulcro del concetto di democrazia ambientale, in base al quale va valutata l’adeguatezza dell’azione statale in relazione all’obbligo di protezione dei diritti umani da danni ambientali, oltre che alla luce dei trattati che disciplinano specificamente la materia, come la Convenzione di Aarhus (che il Perù non ha ratificato). Essa, adottata nel contesto della Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Europa, costituisce uno dei principali strumenti internazionali giuridicamente vincolanti che recepisce il decimo principio della Dichiarazione di Rio, secondo cui il metodo migliore ai fini della gestione delle questioni ambientali è quello di assicurare la partecipazione di tutti gli individui interessati.

Essa poggia su tre pilastri: l’accesso all’informazione, la partecipazione del pubblico nei processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale.

Nel caso qui commentato, la Corte ha ravvisato la violazione, da parte dello Stato convenuto, da un lato dell’articolo 13 per la mancata diffusione di informazioni circa la contaminazione ambientale e i rischi ad essa associati (par. 255) e, dall’altro, dell’articolo 23 per il mancato coinvolgimento dei cittadini nei processi decisionali in materia (par. 261). Essa ha, inoltre, constatato la violazione degli articoli 8 e 25 per l’assenza di indagini adeguate sulle minacce e molestie subite dagli ambientalisti che si battevano contro lo stabilimento industriale (par. 319), in linea con il suo consolidato indirizzo, secondo cui è cruciale includere le comunità, specialmente indigene, nei processi decisionali riguardanti l’ambiente, come evidenziano le sentenze relative alle popolazioni Yakye Axa, Saramaka, Kaliña y Lokono Vs. Surinam, Kichwa de Sarayaku Vs. Ecuador, nonché proteggere gli attivisti ambientali e per i diritti umani, in ragione del ruolo cruciale che ricoprono (v.Kawas Fernández Vs. Honduras e Baraona Bray Vs. Chile).

D’altra parte, il concetto di democrazia ambientale non è estraneo neppure ad altri sistemi. La Corte EDU, in conformità ai principi della Convenzione di Aarhus, ha più volte ribadito il dovere degli Stati di fornire informazioni pertinenti e adeguate al pubblico e di coinvolgerlo nei processi decisionali, consentendogli così di identificare e valutare i rischi, come emerge da casi quali Taşkin c. Turquie (par. 119 e 122), Öneryildiz v. Turkey (par. 62 e 90), Roche v. United Kingdom (par. 167), Budayeva a.o. v. Russia (par. 132), Tătar c. Roumanie (par. 88 e 124) e Brânduşe c. Roumanie (par. 74). Tuttavia, pur essendo i diritti ambientali procedurali ricavabili dalla CEDU, essi, a differenza di quelli garantiti dalla Convenzione di Aarhus, sono generalmente riservati a chi dimostri di essere direttamente colpito dal danno ambientale, come mostra il caso Affaire Cordella e. a. c. Italie (par. 172). Tale approccio si distingue da quello adottato dalla Corte IADU che, nel caso in esame, ha rimarcato il principio di massima divulgazione e trasparenza attiva, nonché l’obbligo positivo in capo alle autorità pubbliche di diffondere, ex officio, le informazioni che detengono (par. 247). Per una disamina particolareggiata inerente al rapporto tra CEDU e Convenzione di Aarhus si rimanda alla seguente analisi.

Più recentemente, nel caso Verein Klimaseniorinnen Schweiz a. o. v. Switzerland (v. qui, qui e qui), la Corte EDU ha rilevato che le misure adottate dalla Svizzera per fronteggiare il cambiamento climatico non solo si erano dimostrate inadeguate rispetto all’obiettivo, ma presentavano anche lacune metodologiche nella loro elaborazione (la Corte indica i principi da seguire in tale fase ai par. 539 e 554 della sentenza). L’adozione di determinate misure finalizzate a contrastare gli effetti del cambiamento climatico deve essere corredata da garanzie che assicurino un processo decisionale inclusivo. In tal senso, la Svizzera è stata ritenuta inadempiente rispetto agli obblighi procedurali, sia relativamente all’acquisizione delle conoscenze necessarie per un corretto svolgimento del processo decisionale, sia alla condivisione delle informazioni rilevanti tra i soggetti potenzialmente esposti agli effetti nocivi del cambiamento climatico (par. 551 e 573).

Il caso Klimaseniorinnen è l’unico dei tre cd. climate change cases su cui si è pronunciata la Corte in aprile 2024 che ha passato il vaglio di ammissibilità, a differenza dei casi Carême v. France e Duarte Agostinho a. o. v. Portugal and 32 others (v. qui). Tra i punti di forza, oltre a quello appena precisato, spicca, il most important procedural take-away: la Corte ha cioè applicato estensivamente i criteri del locus standi, consentendo a un’associazione di agire in giudizio a tutela degli interessi collettivi di cui essa si fa promotrice. Ciò, pur non eludendo il divieto di actio popularis (in tal senso, v. qui) che, come noto, vige nel sistema europeo in virtù dell’articolo 34 CEDU, che limita il ricorso alla sola persona fisica, od organizzazione non governativa, che dimostri di essere vittima di una violazione dei diritti riconosciuti nella CEDU.

Per quanto quest’ultimo profilo di espansione e rafforzamento della legittimazione delle vittime nell’accesso alla giustizia, anche nelle vesti delle associazioni rappresentati i loro interessi, rimanga decisamente apprezzabile, va al contempo stimolato e incrementato il coinvolgimento della comunitĂ . Ciò dovrebbe avvenire non solo attraverso una estensionedei parametri per la legittimazione delle vittime ad accedere alla giustizia, quanto piuttosto mediante l’acquisizione e la successiva condivisione delle informazioni rilevanti tra tutte le parti interessate. In sintesi, la Corte ha affermato che il coinvolgimento della comunitĂ  e la trasparenza nelle decisioni ambientali sono essenziali per garantire una risposta adeguata e giusta alle sfide poste dal cambiamento climatico, riflettendo cosĂŹ i valori fondamentali della Convenzione di Aarhus (sul punto, v. Ragni).

Anche sotto questo aspetto, come già in relazione al consolidamento del diritto a un ambiente salubre, l’impatto della Corte IADU potrebbe giocare un ruolo chiave, andando a consolidare nella giurisprudenza della Corte europea una prassi, avviata con il caso Klimaseniorinnen, diretta a consentire l’accesso alla giustizia anche ad associazioni che rappresentino interessi di carattere collettivo. A tal proposito, degna di nota è, nel sistema interamericano, la facoltà in capo ad associazioni e organizzazioni di agire giudizialmente per portare all’attenzione della Corte violazioni sistemi che di diritti umani. L’articolo 44 della Convenzione americana consente difatti a ogni persona, nonché ente non governativo, di presentare petizioni alla Commissione, dispensando al contempo il ricorrente dalla necessità di dimostrare lo status di vittima. Pertanto, non necessariamente chi denuncia deve coincidere con la presunta vittima. In questo senso, è evidente che le associazioni assumano un ruolo essenziale, come mostrano i casi Lhaka Honhat, in cui è l’associazione che dà il nome alla vicenda giudiziaria a ricorrere e a rappresentare le centinaia di comunità indigene poi identificate come vittime e La Oroya, in cui la petizione è stata presentata da associazioni tra cui, si ricordano, AIDA, APRODEH ed Earthjustice, ma le vittime sono state individuate negli abitanti della cittadina.

4. Considerazioni conclusive

Il caso esaminato assume grande rilevanza nel periodo storico attuale: la giurisprudenza interamericana si inserisce, infatti, nel contesto di un piĂš ampio sviluppo del diritto internazionale che riconosce il legame tra diritti umani e ambiente. In questo quadro, preme sottolineare come il contributo della Corte potrebbe rivelarsi particolarmente significativo nel contesto del parere, giĂ  menzionato, richiesto da Cile e Colombia alla Corte stessa. PiĂš difficile, ma non completamente da escludere, che esso possa essere tenuto in considerazione anche nel parere richiesto alla Corte internazionale di giustizia con la Risoluzione 77/276 del marzo 2023 su iniziativa della Repubblica di Vanuatu, considerato che nella domanda di chiarimento degli obblighi degli Stati in relazione al cambiamento climatico è contenuto un riferimento ai diritti umani.

Per completezza d’analisi, si ricorda come ulteriori pronunce abbiano già confermato il crescente riconoscimento della protezione ambientale come componente essenziale dei diritti umani. Tra esse, si ricordano la decisione del Comitato ONU sui diritti umani del 2022 sulla responsabilità dell’Australia per la violazione dei diritti delle comunità indigene delle Isole Torres legata a un’inadeguata azione di contrasto al cambiamento climatico (Billy a.o. v. Australia) e, in misura decisamente minore, il parere del Tribunale internazionale per il diritto del mare del 2024 relativo agli obblighi statali di protezione degli ecosistemi marini dagli impatti del cambiamento climatico (esaminabile, ex multis, qui, qui, qui).

A riprova della correlazione tra tutela dell’ambiente e diritti umani, al di fuori delle sedi contenziose figurano, inter alia, la Risoluzione A/HRC/RES/48/13 del Consiglio ONU per i diritti umani, i rapporti A/HRC/31/52 e A/HRC/34/49 del Relatore speciale sui Diritti umani e l’Ambiente, la Raccomandazione 2211 e la Risoluzione 2396 del 2021 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa.

Certamente, la Corte interamericana ha compiuto un passo decisivo su due fronti: in primo luogo, seguendo l’impostazione già tracciata nel Parere e nel caso Lhaka Honhat, essa ha consolidato il diritto a un ambiente sano, svincolandolo definitivamente da una strumentalità verso altri diritti tramite la sua incorporazione tra quelli protetti dall’articolo 26 della Convenzione.

Di contro, l’approccio della Corte EDU in questo ambito riflette i limiti derivanti dal diritto positivo della CEDU e dalla costruzione del diritto a un ambiente salubre, che può essere ritenuto leso in presenza di condotte che impattino direttamente sulla salute, o costituiscano grave e imminente rischio per la vita del ricorrente.

Pur coerente con la consolidata giurisprudenza europea, questa impostazione risulta problematica nell’accertamento di responsabilità soprattutto nell’ambito di fenomeni diffusi come il cambiamento climatico, in cui l’esistenza di un nesso causale tra azioni od omissioni statali e danni individuali specifici è spesso difficile, quando non anche impossibile, da provare.

In secondo luogo, come evidenziato da alcuni, permangono importanti ‘lezioni’ che il sistema europeo potrebbe, in futuro, trarre da quello interamericano in relazione ai diritti partecipativi. L’influenza della Corte interamericana potrebbe rafforzare la prassi europea, ampliando la legittimazione delle vittime, anche tramite le associazioni rappresentative. Tuttavia, una gestione efficace di un fenomeno dilagante, quale il cambiamento climatico, richiede altresĂŹ l’elaborazione e attuazione di politiche di contrasto al cambiamento climatico ancorate a un sempre maggiore coinvolgimento della comunitĂ . Un simile obiettivo potrebbe essere validamente concretizzato non soltanto attraverso un’espansione della legittimazione delle vittime ad accedere alla giustizia ex post – anche se, naturalmente, appare lodevole il rafforzamento della Corte del locus standi effettuato nel caso Klimaseniorinnen, concisamente richiamato, suscettibile di ulteriori sviluppi, che si possono legittimamente attendere giĂ  dai prossimi climate cases pendenti davanti alla Corte EDU – ma anche tramite la raccolta e la conseguente diffusione delle informazioni rilevanti tra tutte le parti interessate ex ante. Ciò favorirebbe una crescente consapevolezza nei confronti della sfida climatica e contribuirebbe, per quanto possibile, a prevenirne gli effetti avversi.

In definitiva, la Corte IADU rappresenta una finestra aperta verso una giustizia ambientale più inclusiva. Il riconoscimento del diritto a un ambiente salubre risponde inequivocabilmente all’esigenza di fornire una tutela effettiva in situazioni in cui l’integrità fisica, la salute e persino la vita delle persone sono minacciate da fattori ambientali (Tigre). Il tutto, con la consapevolezza delle criticità legate alla concreta attuazione di questa e, più in generale, di molte decisioni della Corte, considerato il contesto in cui essa opera (sul tema, v. qui e qui).

Data articolo:Mon, 10 Feb 2025 10:47:14 +0000
Diritti Umani a cura di Massimo Starita
Gli stranieri espulsi in catene ovvero Davide contro Golia e il diritto internazionale

Massimo Starita (UniversitĂ  degli Studi di Palermo)

1. Introduzione

Il 24 gennaio la Casa Bianca ha diffuso una foto, indubbiamente scioccante, accompagnata dalla didascalia Deportations flights have begun. Promises made. Promises kept. In essa si vedono nove uomini incatenati che si avviano verso un aeroplano militare (qui). Non sappiamo nulla di loro. Non sappiamo chi siano, se siano stati condannati per reati gravi, se siano sospettati di terrorismo o semplicemente immigrati irregolari. Non sappiamo se le procedure di espulsione siano state sino a quel momento conformi al diritto, se i loro casi siano stati oggetto di valutazione individuale o se sia in corso un’espulsione collettiva. Non sappiamo nemmeno se si tratti di attori, ingaggiati dalla Casa Bianca per una campagna pubblicitaria.

Sappiamo però che nei giorni immediatamente successivi si è consumata una crisi diplomatica di una certa gravità che ha visto coinvolti gli USA, la Colombia e, in misura minore, il Brasile. La Colombia non ha concesso l’autorizzazione all’atterraggio di almeno due aerei statunitensi con a bordo cittadini colombiani per protestare contro le modalità inumane delle espulsioni in corso e della lesione della dignità delle persone a bordo. Dopo scambi diplomatici caratterizzati da una crescente tensione, nel corso dei quali la Casa Bianca ha minacciato di reagire con misure economiche draconiane al rifiuto colombiano di accettare il rimpatrio dei propri cittadini (vale a dire mediante la sospensione di tutte le richieste di visto di cittadini colombiani e, soprattutto, l’elevazione al 25% prima e al 50%, in un secondo momento, dei dazi all’ingresso di qualsiasi prodotto colombiano), la crisi sembra aver trovato una soluzione quantomeno provvisoria.

Le versioni dei termini dell’accordo raggiunto che hanno offerto alla stampa i due governi sono però piuttosto diverse. Quello colombiano ha dichiarato “superata l’impasse” anche grazie all’invio di aeromobili colombiani per consentire condizioni degne di trasporto. Il governo statunitense ha, invece, dichiarato che la controparte avrebbe accettato “tutte le condizioni” poste, ivi compreso il rimpatrio without limitation or delay di tutti i cittadini colombiani, e che per tale ragione non avrebbe dato seguito alle misure minacciate (qui e qui). Il confronto con il Brasile, concernente anche in questo caso un volo americano con a bordo deportati, per quanto caratterizzato da un livello di tensione più basso, ha avuto anch’esso ad oggetto proteste diplomatiche per le modalità dell’espulsione. Una volta atterrato anticipatamente a Manaus, le autorità brasiliane hanno constatato che le persone a bordo erano incatenate alle mani e ai piedi (v. qui).

Al di là del turbamento emotivo suscitato dalla vicenda, essa solleva anche la questione, non di poco conto (se non altro per la comunità di lettori di Sidiblog), di sapere se il diritto internazionale abbia orientato la (provvisoria) soluzione della crisi o se quest’ultima si sia giocata e si continuerà a giocare su un terreno squisitamente politico. Diciamo subito che a questa domanda non si può dare una risposta definitiva, trattandosi di una vicenda che non è ancora conclusa, ma che potrebbe al contrario essere appena cominciata, poiché s’inquadra nell’ambito di una più ampia politica della nuova amministrazione statunitense di significativo rafforzamento delle espulsioni degli stranieri irregolari. Tuttavia, ci sembra che dalla vicenda si possano ricavare delle indicazioni utili per affermare che il diritto internazionale sia venuto in rilievo, anche se ad esserlo è stato essenzialmente il diritto consuetudinario. Ciò vale in primo luogo per quanto concerne i mezzi di soluzione delle controversie attivati e le misure adottate o minacciate dagli Stati coinvolti; ma anche dal punto di vista materiale, vale a dire delle norme che costituiscono il parametro per valutare la liceità delle modalità delle espulsioni. Anche da questo secondo punto di vista, è al diritto consuetudinario che si deve fare riferimento in questo contesto. Ci pare, insomma, che la vicenda non costituisca affatto un segno della – pretesa – crisi del diritto internazionale di cui tanto si (stra)parla. Allo stesso tempo, però, ad entrare in gioco è il diritto internazionale più “rudimentale” (2), quello che, sul piano delle norme primarie, prescrive dei limiti “minimi” al potere sovrano di espellere gli stranieri (3-4), e che sul piano delle garanzie meno si stacca dalla realtà delle dinamiche dei rapporti di forza (5-7).

2. Le ragioni del rilievo del diritto consuetudinario ai fini della soluzione della controversia.

È opinione comune che le norme consuetudinarie applicabili al fenomeno delle migrazioni siano molto poche; così come ampiamente condivisa è anche l’idea che le norme consuetudinarie siano in gran parte superate dai trattati in materia di diritti umani (v. per tutti  Chetail). Ora è indubbio che i trattati sui diritti umani abbiano trovato costante applicazione in relazione al contesto migratorio, e che ciò abbia comportato l’estensione ad esso di limiti al potere statale più profondi rispetto a quanto previsto dal diritto consuetudinario. Così come è notevole che in questo ambito abbiano funzionato meccanismi di controllo, incentrati su organismi internazionali indipendenti e tendenzialmente attivabili dagli individui stessi. Si deve però tenere presente che questo discorso non vale in termini assoluti, ma dipende sempre in una certa misura dal consenso prestato dagli Stati. Ora, come è noto, gli Stati Uniti sono parti solo di due trattati universali in materia di diritti umani rilevanti in questo ambito (la Convenzione contro la tortura e il Patto internazionale sui diritti civili e politici) e non hanno mai accettato le procedure di controllo sul rispetto dei diritti umani, tanto di carattere universale che regionale, attivabili dagli individui che ritengono di essere vittime di violazioni ovvero dagli altri Stati parte in nome di un interesse collettivo (v. qui). Oltre a ciò, gli Stati Uniti in diverse occasioni hanno sottolineato il carattere non vincolante dell’interpretazione resa dagli organismi di controllo (v. ad esempio, Summary record of the 21st meeting: 6th Committee, held at Headquarters, New York, on Friday, 30 October 2009, General Assembly, 64th session, para. 99).

Già questa considerazione rende utile chiedersi se la protesta di Colombia e Brasile riguardi non soltanto la violazione di obblighi derivanti dai trattati appena richiamati, anche ed anzitutto di obblighi di natura consuetudinaria. Il rilievo di questo “pezzo” dell’ordinamento risulta, però, anche da un’ulteriore considerazione. Gli Stati Uniti hanno richiesto con forza alle controparti di accettare i rimpatri. Se questa richiesta ha un fondamento giuridico è perché il potere sovrano di espellere gli stranieri riconosciuto dal diritto consuetudinario ha come corollario l’obbligo dello Stato di cittadinanza di accogliere i suoi cittadini (Goodwin-Gill, p. 56; Oppenheim, p. 350, 382; nonché Corte internazionale di giustizia, Nottebohm, Opinione separata del Giudice Read, p. 47). Si tratterebbe – secondo una felice espressione di Schwarzenberger (International Law, London, 1957, vol. I, p. 361) – di un obbligo strumentale all’attuazione del diritto dell’altro. È insomma sul piano del diritto consuetudinario che la controversia si è sin dall’inizio incanalata ed è dunque su questo piano che va trovata la risposta al problema che ci siamo posti.

3. Il principio di protezione dello straniero e il divieto di espulsione lesive della dignitĂ : la prassi riguardante i cittadini statunitensi.

È importante allora ricordare che non solo i trattati sui diritti umani, così come interpretati dai rispettivi comitati, ma già il diritto consuetudinario in materia di trattamento dello straniero, e in particolare l’obbligo di protezione della sua persona, vieta modalità di espulsioni lesive della dignità delle persone. Così come è importante ricordare che una parte significativa della prassi e della giurisprudenza rilevanti in materia si sono formate con riferimento a casi di maltrattamenti riguardanti proprio cittadini statunitensi (oltre che di cittadini di Paesi europei, naturalmente; v. il sesto rapporto di Garcia Amador sulla responsabilità internazionale, p. 30 ss.).

Questo specifico aspetto del principio di protezione è stato inserito dalla Commissione di diritto internazionale nel Progetto di articoli sull’espulsione degli stranieri adottato nel 2014. L’art. 13, par. 1, collocato nella Parte III, Capitolo I del Progetto, recante “General provisions” in materia di “Protection of the rights of aliens subject to expulsion”, recita: “[a]ll aliens subject to expulsion shall be treated with humanity and with respect for the inherent dignity of the human person at all stages of the expulsion process”. Proprio per la sua natura di “general provision”, l’art. 13 si riferisce a qualsiasi Stato coinvolto in una procedura di espulsione (che sono almeno due: lo Stato di espulsione e lo Stato di destinazione). L’articolo 17 assegna poi un contenuto piĂš preciso al concetto di dignitĂ  in relazione allo Stato di espulsione, stabilendo che “the expelling State shall not subject an alien subject to expulsion to torture or to cruel, inhuman or degrading treatment or punishment”.

La natura consuetudinaria di questo standard non è stata contestata durante i dibattiti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in particolare non dal rappresentante degli Stati Uniti, i quali pure avevano criticato il lavoro della Commissione, dal momento che “far from codifying rules of relevant customary international law… sought to amend established State practice and obligations under bilateral and multilateral extradition treaty regimes”. Tra gli esempi forniti dal rappresentante del governo statunitense di un simile eccesso di sviluppo progressivo del diritto internazionale non figura però il rispetto della dignitĂ  e il divieto di tortura o di trattamenti inumani o degradanti (v. ancora General Assembly, 64th session, Summary record of the 21st meeting : 6th Committee, 30 October 2009, paragrafi 97-100).

Non sappiamo se il fatto che gli Stati Uniti non avessero nulla da eccepire al riguardo derivasse dalla considerazione che, come giĂ  ricordato, sia proprio in relazione a casi riguardanti i cittadini americani che questa norma ha trovato significativa applicazione tra la seconda metĂ  dell’Ottocento e la prima parte del Novecento. Ciò anche perchĂŠ nĂŠ la Commissione nĂŠ il Relatore Speciale hanno fornito indicazioni riguardo a prassi e opinio juris.

La prassi da guardare è anzitutto quella fornita dalle due Commissioni dei reclami istituite, prima nel 1868 e poi nel 1923, tra Messico e Stati Uniti per risolvere una serie di controversie, alcune delle quali riguardavano specificamente casi di espulsione, in cui non si contestava la decisione di espulsione, che rientrava nell’insindacabile potere dello Stato, ma le modalità con cui quest’ultima era stata eseguita.

La prima decisione risale al 1868 e riguarda il caso Thomas Gourrier, insultato, ridicolizzato e costretto a camminare per trecento chilometri per poi essere detenuto. Secondo l’arbitro Thornton “there is no excuse for the cruelty with which the claimant appears to have been treated by General Figueroa, the unnecessary and painful march to which he was subjected together with his subsequent imprisonment” (M. Whiteman, Damages in International Law, vol. I, Washington, 1937, pp. 483, 484). Non si tratta del resto di un caso isolato, se è vero che il caso James B. Kindred fu considerato dalla Commissione “almost the same as that of Thomas Gourrier”, ivi, p. 485; (v. anche il caso Joseph A. Costa, ivi, p. 486). Nel 1928, davanti alla nuova Commissione bilaterale dei reclami istituita cinque anni prima, nell’affare Daniel Dillon, che era stato, tra le altre cose, incarcerato per quindici giorni senza poter comunicare con l’esterno. La Commissione osservò a tale riguardo: “there may be no rule of international law or practice with regard to precise, proper methods of expelling an alien, such as those that have been suggested by writers by conducting a man to an international border or by delivering him to a representative of his government. But when resort is had to a use of unnecessary force or other improper treatment there may be ground for a charge such as is made in the instant case, account being taken of the manner in which expulsion might have been effected” (qui).

Molti anni dopo, è sempre in relazione ai cittadini americani che lo standard minimo di trattamento dello straniero nel corso di un’espulsione, è stato riaffermato nella giurisprudenza arbitrale. Il Tribunale arbitrale Iran/Stati Uniti, nei casi Yaeger e Rankin (qui e qui), decisi rispettivamente il 2 e il 3 novembre 1987, affermò che “alcune norme minime procedurali e sostanziali sono comunque garantite dal diritto internazionale”… tra le quali quella che impone di “concedere allo straniero da espellere un tempo sufficiente per sistemare i propri affari” e quella che vieta le espulsioni “arbitrarie o discriminatorie”.

4. Cenni ad altre manifestazioni della prassi.

Se si tiene presente la giurisprudenza appena ricordata, dovrebbe risultare chiaro che il costante e diffuso riconoscimento, tanto in dottrina (v. ad es. Kalin/Kunzli, cap. 18) quanto da parte dei treaty-based bodies, dell’applicabilitĂ  del divieto di tortura, trattamenti inumani o degradanti in ogni circostanza (v. ad esempio qui) e, dunque, a che nel contesto di una procedura di espulsione – riconoscimento che trova la sua ragione nella natura assoluta del divieto stesso – corrisponde ad una norma di diritto internazionale generale preesistente. A completamento del discorso, si può aggiungere che il divieto di cui parliamo è imposto in tempo di pace come nel corso di un conflitto, se è vero che l’articolo 36 della IV Convenzione di Ginevra, rubricato “Methods of repatriation”, stabilisce che i rimpatri “shall be carried out in satisfactory conditions as regards safety, hygiene, sanitation and food” (qui). Nell’interpretare questo articolo, il cui testo si riferisce ai rimpatri volontari, vale a dire richiesti dalle persone protette, la Commissione per i reclami tra Eritrea ed Etiopia, in una decisione del 17 dicembre 2004 (qui), ha ritenuto che esso trova applicazione anche in relazione alle espulsioni decise da uno degli Stati belligeranti, considerandolo dunque espressione di un principio generale. Anche in tali circostanze, quindi, le espulsioni devono soddisfare standard umanitari minimi, standard che, secondo la Commissione erano stati violati in diversi casi che le erano stati sottoposti (pp. 23-24).

5. La questione delle garanzie: a) azione diplomatica e contromisure.

Anche se si passa alla questione delle garanzie, vale a dire dei meccanismi sin qui attivati per assicurare il rispetto del diritto internazionale, la vicenda dei “deportati in catene” è di notevole interesse. Le ragioni sono tre: (a) la prima è che questo caso ci fornisce un esempio di due meccanismi che la stessa dottrina si era abituata a considerare obsoleti nel campo dei diritti umani e cioè, da un lato, l’adozione di contromisure da parte dello Stato di cittadinanza e, dall’altro lato, l’attivazione di meccanismi diplomatici per risolvere la controversia; (b) il secondo motivo di interesse è che la contromisura concretamente adottata solleva la questione se sia lecito, in base al diritto internazionale, violare – a titolo di contromisura – un obbligo previsto da un trattato sui diritti umani; (c) da ultimo, viene in rilievo il tema dell’efficacia delle contromisure e della protezione diplomatica in un contesto caratterizzato da una notevole sproporzione in termini di “potenza” tra lo Stato autore dell’illecito e lo Stato leso.

Come abbiamo ricordato in apertura, gli Stati coinvolti hanno dato diverse versioni sull’andamento dei negoziati. Ciononostante, i pochi fatti certi e la stessa presenza di versioni diverse su altri permettono di svolgere le seguenti considerazioni.

La prima riguarda la qualificazione delle posizioni assunte dai due presidenti di Colombia e Brasile. È certo che le proteste e le richieste di chiarimenti e di porre fine al trattamento illecito dei cittadini rientrino nel concetto di protezione diplomatica, consistendo in un’azione “diplomatica” volta ad ottenerne l’immediata cessazione dell’illecito da parte dello Stato responsabile. Diverso è il discorso da fare riguardo al rifiuto di autorizzare l’atterraggio dei due aerei militari statunitensi. Se la funzione della protezione diplomatica è esclusivamente quella di “invocare la responsabilità”, come vuole l’articolo 1 del Progetto di articoli sulla protezione diplomatica della Commissione di diritto internazionale (v. anche il relativo commento qui), è piuttosto facile notare che l’obiettivo seguito dal governo colombiano con l’adozione di siffatta misura va oltre la semplice invocazione. Ciò detto, l’esatta configurazione della misura stessa non può essere fatta in astratto, ma dipende necessariamente dalle circostanze. Per quanto riguarda il Brasile che, a quanto risulta, dopo un imprevisto atterraggio dell’aeromobile statunitense nell’aeroporto di Manus avrebbe proceduto al trasbordo delle persone su un proprio aereo, dopo aver riscontrato la sottoposizione di queste ultime a trattamenti inumani o degradanti, ci pare di trovarci di fronte a una misura di enforcement, con cui lo Stato leso procede all’attuazione del diritto internazionale in sostituzione dello Stato autore dell’illecito (fermo restando, peraltro, il problema delle spese e dei risarcimenti alle vittime). Una simile ricostruzione riposa sulla circostanza che lo Stato leso ha agito sul proprio territorio nell’esercizio di poteri sovrani. Per quanto riguarda la Colombia, che ha sostanzialmente “inviato indietro” l’aeromobile, una simile ricostruzione non sembra possibile. Neanche il fatto che, secondo le ricostruzioni fornite sulla stampa, il governo colombiano ha contestualmente inviato un proprio aereo negli Stati Uniti per effettuare il trasporto presenta una coloritura di enforcement. È chiaro, infatti, che l’ingresso nel territorio statunitense è avvenuto sulla base del consenso statunitense e, dunque, di un accordo tra le Parti della controversia. Il diniego di autorizzazione all’atterraggio sembra piuttosto configurabile come contromisura, essendo volta ad ottenere la cessazione della violazione in corso e garanzie circa la sua non ripetizione. Che si tratti di una contromisura – e non di ritorsione – deriva dalla considerazione, cui abbiamo fatto cenno piĂš sopra, che l’obbligo dello Stato di riammettere i propri cittadini è il necessario corollario del diritto dell’altro Stato di espellere gli stranieri.

6. B) Il problema del rispetto dei diritti umani nell’esercizio del potere di adottare contromisure.

Si deve a questo punto rapidamente affrontare una questione che teoricamente potrebbe porsi. L’obbligo di accogliere i propri cittadini è, come noto, sancito in diversi trattati che tutelano i diritti umani, e tra questi, nell’art. 12, paragrafo 4, del Patto sui diritti civili e politici e nell’art. 22, par. 5 della Convenzione americana. È dunque da ritenersi che la Colombia abbia violato gli obblighi derivanti dalle riferite disposizioni? Se la risposta fosse affermativa ne deriverebbe un problema di responsabilitĂ  della Colombia nei riguardi dei suoi cittadini, dato che nessuna clausola dei trattati, nĂŠ tantomeno il diritto internazionale generale in materia di responsabilitĂ  (v. il Progetto di articoli sulla responsabilitĂ  degli Stati per fatto illecito, art. 50, par. 1 b) consentono di violare i diritti umani a titolo di contromisura. Ci sembra, però, che violazione non vi sia stata. Le misure adottate dalla Colombia vanno intese, infatti, come volte a sospendere provvisoriamente l’ingresso dei cittadini nel territorio statale, subordinandolo al rispetto delle garanzie di cui abbiamo parlato da parte dello Stato autore delle espulsioni. Un simile provvedimento, insomma, non sembra costituire un diniego del diritto umano all’ingresso nel proprio Paese, ad un tempo per il suo carattere provvisorio e per la sua funzione di tutela dei diritti umani delle persone che indirettamente ne sono colpite. Il Patto sui diritti civili e politici vieta, del resto, il rifiuto arbitrario dell’ingresso di un cittadino, sicchĂŠ, per le ragioni or ora indicate, la misura in esame potrebbe integrare una di quelle rare ipotesi in cui il Comitato dei diritti umani ammette la non arbitrarietĂ  di una misura statale che impedisca l’ingresso a suoi cittadini (General Comment No. 27, par. 21). Solo per completezza del ragionamento, occorre aggiungere che la liceitĂ  di una simile misura sarebbe da escludere solo qualora la sua attuazione esponesse le persone interessate al serio rischio di essere sottoposti ad altri e piĂš gravi trattamenti inumani e degradanti una volta ritornati nello Stato di espulsione (ciò in ragione dell’obbligo di non refoulement derivante dal divieto di simili trattamenti).

7.C) Efficacia delle garanzie e rapporti di forza.

L’ultima considerazione da svolgere – a chiusura di questo breve commento – riguarda l’efficacia dei meccanismi di garanzia sin qui attivati per ottenere il rispetto delle norme internazionali in tema di espulsione. In prima battuta, non si può non rilevare che, in un contesto quale quello fornito dalla vicenda esaminata, la capacitĂ  dell’azione diplomatica e delle contromisure adottate dallo Stato leso di produrre l’effetto voluto dipende dai rapporti di forza tra i due Stati parti della controversia. È il meccanismo stesso delle contromisure – che consente sĂŹ allo Stato leso di farsi giustizia da sĂŠ, ma all’interno di un rapporto bilaterale con lo Stato autore dell’illecito – a rendere l’istituto “poroso” rispetto a considerazioni extra-giuridiche, come in particolare il potere economico relativo dei due Stati implicati. Ciò non significa, però, necessariamente che l’azione di uno Stato “piccolo” sia destinata a fallire. Ciò almeno per due ragioni. In primo luogo, bisogna considerare anche le possibili ripercussioni interne che un’escalation può produrre, anche per una “Grande Potenza”. Sotto questo profilo le minacce di matrice economica del governo statunitense, consistenti nell’innalzamento dei dazi doganali, ci sembrano emblematiche. In secondo luogo, perchĂŠ non sempre vicende di questo tipo restano nel ristretto ambito di un confronto bilaterale. Intendiamo dire che i singoli Stati che ritengono di essere lesi da un illecito compiuto dalla medesima “Grande Potenza” hanno interesse a concertare soluzioni comuni. Anche sotto questo profilo, la vicenda in esame offre qualche spunto di riflessione. La politica statunitense in atto coinvolge, infatti, diversi Stati centro e sud-americani, e non è un caso che a un primo tentativo di questi ultimi di adottare una posizione comune, nell’ambito della ComunitĂ  degli Stati latinoamericani e caraibici, abbia fatto seguito un’offensiva politica statunitense – consistente nella minaccia di dazi, questa volta rivolta a diversi Stati dell’area, incluso il Messico – volta a rompere sul nascere una prospettiva unitaria (qui).

Data articolo:Mon, 03 Feb 2025 14:34:27 +0000
Corte penale internazionale a cura di Alessia Preti
The ICC Arrest Warrants in the Situation in the State of Palestine: Some Reflections on the Chamber’s Decisions

Alessia Preti (UniversitĂ  di Bologna)

1. Introduction

On 21 November 2024, under the Situation in the State of Palestine (‘Situation’), the International Criminal Court (‘ICC’) issued arrest warrants against Benjamin Netanyahu, Prime Minister of Israel; Yoav Gallant, former Minister of Defence of Israel; and Mohammed Diab Ibrahim Al-Masri, highest commander of the military wing of Hamas.

This contribution aims to examine such development, based on information in the public domain, for the arrest warrants have been classified so as to avoid jeopardizing the security of witnesses and the efficacy of investigations. At the outset, this work briefly retraces the proceedings leading to the judicial measures under consideration; second, the decision of Pre-trial Chamber I (‘Chamber’) to issue arrest warrants is examined from both a substantive and procedural standpoint; third, the Chamber’s rejection is analyzed of Israel’s exceptions over the regularity of notification and lack of jurisdiction. Finally, the contribution concludes with few critical considerations, with special regard to the consistency of reactions to the arrest warrants from third States.

2. The proceedings before the ICC culminated with the issuance of the arrest warrants

A preliminary examination of the situation in Palestine was opened on 16 January 2015, following the accession of Palestine to the Rome Statute. In spite of the long-lasting debate over Palestine’s statehood, the accession found juridical basis in the UN General Assembly Resolution n. 67/19 of 2012, which attributed to Palestine the status of “non-member State” (see in a critical sense Conforti, p. 17). In May 2018, Palestine referred the situation to the Office of the Prosecutor (‘OTP’) under articles 13(a) and 14 of the Statute for the opening of an investigation on the alleged crimes committed in every part of its territory since 13 June 2014. In 2019, by resorting to article 19(3) of the Statute, albeit irregularly (see Cimiotta), the Prosecutor requested confirmation of the scope of the Court’s territorial jurisdiction under article 12(2)(a), encouraging the deposit of amicus curiae observations on the issue. With its Decision adopted by majority on 5 February 2021, Pre-Trial Chamber I confirmed the extension of the jurisdiction over the territories occupied by Israel since 1967 (Gaza and the West Bank, including East Jerusalem) based on Palestine’s effective accession to the Rome Statute, aside from the contentious question of its statehood (see Cimiotta; Ambos). The Decision also incidentally addressed, without resolving it, the issue of the Oslo Accords, which reemerged more recently after the Prosecutor’s request for arrest warrants. These are the agreements concluded between Israel and the PLO starting from 1993, aimed at achieving “a just, lasting and comprehensive peace settlement and historic reconciliation” between the parties through an agreed political process which consisted also in the attribution of rights and duties over portions of territories and the respective populations, including criminal jurisdiction (see Watson). On 3 March 2021, the Prosecutor announced the opening of an investigation in the Situation in the State of Palestine.

The recent intensification of the conflict has undoubtedly hastened the conclusion of the investigation. The humanitarian crisis in Gaza pushed various States to formally draw the Prosecutor’s attention to the situation in Palestine through additional referrals(one in November 2023; one in January 2024). By their arrival, the Prosecutor confirmed that the already ongoing investigation also extended to the escalation of hostilities started the 7 October 2023. The request for arrest warrants was filed on 20 May 2024. The United Kingdom then sought authorization for the deposit of written observations on the “outstanding” jurisdictional questions, particularly concerning the Oslo Accords. Tasked with determining whether the conditions for the issuance of the warrants were met, the Chamber authorized the submission of amicus curiae observations, once again receiving numerous contributions (40 states, also counting all members of international organizations intervened; 41 academics and civil society organizations; 3 individuals). Israel submitted two requests: one seeking a new notification from the OTP pursuant to article 18(1) outlining the defining parameters of the investigation started the 7 October 2023; the other challenging the jurisdiction of the Court under article 19(2) of the Statute. Only after several months did the Chamber order the issuance of the warrants, while simultaneously rejecting these requests.

3. Alleged crimes object of the warrants of arrest

With the issuance of arrest warrants for the sole surviving Hamas militia leader, and the Israeli government officials most involved in the conflict, the Chamber confirmed that there are reasonable grounds to believe that the suspects substantially violated the Rome Statute. Notably, the Chamber endorsed the Prosecutor’s framing of the hostilities in Gaza, classifying the situation under review as a conflict that is simultaneously international and non-international in nature. This two-tiered classification arises from its characterization both as a conflict between Israel and Palestine and as one between Israel and Hamas (see Malik; Quigley). This allows the Court to apply the relevant rules of international humanitarian law for each type of conflict and to charge conducts falling under all war crimes of its competence (in general, see Marauhn e Ntoubandi).

Concerning the crimes allegedly committed by Al-Masri, in light of the modalities of action employed during the operation of 7 October 2023, the Chamber highlighted that there are reasonable grounds to consider them as part of a widespread and systematic attack directed by Hamas and other groups against the Israeli civilian population. This finding validates the potential classification of the acts in question under the normative framework of crimes against humanity as defined in article 7 of the Statute. Among other relevant conducts, the execution of mass killings by the members of the group in various Israeli communities and during the Supernova festival could qualify not only as murder (article 7(1)(a) of the Statute), but also as extermination (article 7(1)(b)). Moreover, there are reasonable grounds to conclude that these same acts integrate the war crime of intentionally directing attacks against civilians (article 8(2)(b)(i)). Regarding the capture of a large number of civilians, it is reasonably believed that the war crime of taking hostages was also committed (article 8(2)(a)(viii)). The conduct in question, aimed at securing the release of Palestinians held by Israel in exchange for the hostages, was indeed accompanied by the requested subjective element (see Elements of crimes). Finally, concerning the treatment allegedly suffered by the hostages, the Chamber concluded that there are reasonable grounds to believe the following crimes were committed: torture (articles 7(1)(f) and 8(2)(a)(ii)); rape and other forms of sexual violence (articles 7(1)(g) and 8(2)(b)(xxii)); cruel treatment (article 8 (2)(b)(xxii)); outrages upon personal dignity (article 8(2)(b)(xxi)). In connection with these allegations, Al-Masri’s criminal responsibility would arise from his direct commission of the mentioned crimes, from having ordered their commission or, as the commander of the armed group, from his failure to prevent their commission.

With regards to the allegations formalized in the arrest warrants against Netanyahu and Gallant, the Chamber began by emphasizing that their conduct must be evaluated under a dual perspective. In fact, Israel is not only engaged in an armed conflict with Hamas and Palestine, but in relation to the Palestinian population it is also the occupying power in occupied territories (see, on the illegal character of the occupation, the ICJ advisory opinion of July 2024). The Chamber stated that by deliberately limiting humanitarian aid access and failing to facilitate relief by all possible means, the two suspects severely compromised humanitarian organizations’ ability to provide essential goods to the population in Gaza, with devastating consequences in terms of access to food and drinkable water, and hospital functioning. No clear military necessity or other justification under international humanitarian law has been identified to warrant such severe restrictions on humanitarian relief operations. Significantly, the Chamber further noted that the intentional, prolonged period of deprivation, together with certain declarations by Netanyahu, would demonstrate a direct link between the halt of humanitarian aids and war objectives. Based on these considerations, there are reasonable grounds to believe that Netanyahu and Gallant are responsible for the war crime of starvation as a method of warfare (article 8 (2)(b)(xxv)). Furthermore, the resulting deaths and severe suffering inflicted thorough the deprivation of food, water and medicines to all the population in Gaza provide reasonable grounds to believe that the two individuals committed the crimes against humanity of murder (article 7 (1)(a)), inhumane acts (article 7(1)(k)) and persecution (article 7(1)(h)). Lastly, Netanyahu and Gallant can be plausibly held responsible for the war crimes of intentionally directing attacks against the civilian population in Gaza (articles 8 (2)(b)(i) and 8(2)(e)(i) of the Statute).

Comparing these provisional charges to the broader factual record of the conflict reveals significant gaps. Some specific instances that could integrate crimes within the Court’s jurisdiction do not seem to have been considered in the formalized allegations (see  Poltronieri Rossetti). In particular, reference is made to war crimes under article 8 which make up, together with the direction of attacks against civilians, the content of the general prohibition of conducting indiscriminate or disproportionate attacks: under paragraph (2)(b)(iii) intentionally attacking personnel or objects involved in a humanitarian assistance or peacekeeping mission; (iv) launching an attack knowing its disproportionate character (see, in relation to the attack on  the Jabalia refugee camp Schack); (ix) intentionally directing attacks against buildings dedicated to religion, education, art, science or charitable purposes, historic monuments, hospitals and places where the sick and wounded are collected (see in general Schabas Part II, Article 8). Despite a marked increase in such attacks after 20 May 2024, various episodes had already occurred during the period under review by the Chamber for the issuance of the current warrants (see Asi e Mills; and the multiple reports by UNRWA and OCHA). This raises questions on the thoroughness of the allegations and the criteria used in identifying relevant conduct, especially in a context that is undoubtedly complex, but ictu oculi characterized by several acts ascribable to violations of the international humanitarian law incorporated in the Statute of the Court.

4. The rejection of Israel’s exceptions and the further deferment of pending jurisdictional questions

As noted earlier, one of the two instances related to alleged irregularities in the notification process at the opening of the investigations pursuant to article 18 of the Statute (observations on this point were also submitted by the United States). Israel asked the Chamber to recognise the insufficient specificity of the notification made by the OTP in 2021, or to confirm that a new situation arose after 7 October 2023, and, on either ground, to order a new notification from the OTP. Arguably, the underlying rationale for this request resides in the possibility, had it been accepted, of obtaining new terms for the exercise of article 18(2) prerogatives. This allows a State to request, within one month from the notification, the deferral of the Prosecutor’s investigations based on the fact that it is investigating (or has investigated) its nationals or others within its jurisdiction with respect to criminal acts which may constitute crimes referred to in article 5 and which relate to the information provided in the notification. However, the Chamber did not share Israel’s views. In particular, it concluded that the notification of 9 March 2021, which presented all elements requested by article 18(1), is sufficiently specific and remains valid for investigations carried out after the October 2023 escalation. Moreover, the Chamber clarified that the procedure outlined in article 18(2) is aimed at granting admissibility challenges based on the principle of complementarity at the initial phase of the investigation, not once it has already reached an advanced stage. In brief: “[w]here a State is given the opportunity to assert its right to exercise jurisdiction, but it has declined, failed or neglected to do so, the investigation may proceed” (§14 of the Decision).

As to Israel’s challenge to the Court’s jurisdiction under article 19(2) of the Statute, this was based on two distinct but interrelated considerations. Substantively, Palestine would not possess what is required under international law to validly delegate its territorial jurisdiction to the Court. In terms of standing, Israel would be a State whose acceptance of the Court’s jurisdiction is required pursuant to article 19(2)(c). On this last point, the Chamber specified that due to Palestine’s acceptance of jurisdiction – as the State on the territory of which the conducts under investigation have occurred – the jurisdiction of the Court was properly established on the territorial criteria, and therefore Israel’s acceptance of jurisdiction – as the State of which the persons accused of the crimes are nationals – is not required. Consequently, Israel is not entitled to challenge the jurisdiction of the Court under article 19(2)(c).  

As for Palestine’s alleged inability to delegate jurisdiction to the Court, the Chamber merely observed that this issue had already been addressed in a prior decision that has become res judicata (§15). Concluding its decision, the Chamber reminded States that the opportunity to challenge the jurisdiction of the Court, or the admissibility of a case, arises only after the issuance of arrest warrants (§17). This last statement appears rather inconsistent with what was affirmed in the 2021 Decision (§131). In general, what emerges is that the Chamber seems once again willing to delay consideration of unresolved jurisdictional issues to a later stage, even though it has authorized the submission of amicus curiae observations on the matter before the issuance of the warrants (Order of 27 June 2024).

Nonetheless, given the 2021 Decision, it should be pointed out that the only outstanding jurisdictional questions would be those pertaining to the Oslo Accords, not to Palestine’s statehood – a matter the Chamber has already ruled upon. In other words, adhering to the theory whereas the Court’s jurisdiction is delegated by States Parties, doubts about the jurisdiction of the Court in the Situation could persist only due to Palestine’s alleged inability to delegate jurisdiction under the Oslo Accords (nemo dat quod non habet), not because Palestine is not, for some, a State. Having regard to the content of its recent appeal (the two requests made before the issuance of the warrants are not yet public), it seems that Israel advanced the second of the two arguments.

A review of the observations filed after the Prosecutor’s request for warrants (see Obel Hansen), particularly those concerning the validity of the delegation of jurisdiction under the Oslo Accords, highlights how it would have been desirable for the Chamber to address these matters already at this stage of proceedings. These observations reflect the existence of deeply divergent views among States parties (and non-parties) to the Rome Statute regarding the very foundation of the ICC’s jurisdiction. More specifically – and primarily – doubts persist about whether the jurisdiction of the Court is delegated in nature. Furthermore, it is not clear whether agreements such as Oslo II (substantially comparable to SOFAs, in terms of effects on the jurisdiction of a State) could restrict the scope of the Court’s jurisdiction or, at most, merely limit a State’s own exercise of jurisdiction. Upon closer inspection, the Court has never developed a precise position on these merits (see Cormier). What remains undisputed is that for Palestine – as acknowledged by the Prosecutor in 2020 – “the relevance of the Oslo Accords could arise in the context of article 98(2), when the Court requests the arrest and surrender of a person”.

5. Conclusions

It is difficult to overstate the significance of the warrant’s issuance, both in the proceedings before the ICC and in the political dimension of the Israeli-Palestinian conflict. The Court’s findings on the existence of reasonable grounds to believe that the Rome Statute has been violated by Netanyahu, Gallant and Al-Masri seem certainly well-grounded, notwithstanding the possibility that further charges may arise in connection with events occurred after 20 May 2024. Form a procedural standpoint, it appears that the Chamber missed a crucial opportunity to dispel all doubts regarding the Court’s jurisdiction in the Situation de quo. A further ruling will thus be necessary, inter alia, to obtain clarity on the relevance of the Oslo Accords.  

In the meantime, States reacted to the warrants. As was to be expected, those targeting Israeli ministers have provoked strong criticism from States close to Israel, particularly the United States. Israel, despite questionable statutory standing, has also appealed the recent decisions rejecting its earlier requests. On the other hand, there have been statements of support for the Court’s work and encouragement to uphold international law more generally, coming from countries such as South Africa, Switzerland, Sweden, the Netherlands, Ireland, Belgium, Canada, and Jordan. The EU’s High Representative for Foreign Affairs, Joseph Borrell, has explicitly reiterated that the ICC’s decision is a legal, not political, matter, leaving no room for discretion: States Parties to the Rome Statute are bound to comply with the resulting obligations. Nevertheless, it is difficult to overlook a certain degree of ambiguity expressed by some representatives of EU member states. France, for example, while declaring it will act in accordance with the Statute, holds the view that Netanyahu’s arrest would be hindered by the immunity he enjoys as Prime Minister of Israel, a State that it is not a party to the ICC system. This is an argument that the Court has already addressed, dismissing its validity (see Al-Bashir case). As we wait for further developments in legal fora, the search for lasting peace in Gaza continues amidst the tensions between the rationale of politics and those of law.

Data articolo:Mon, 27 Jan 2025 14:03:33 +0000
Corte penale internazionale a cura di Khrystyna Gavrysh
Un po’ di chiarezza sulla mancata consegna di Osama Elmasry Njeem alla Corte penale internazionale

Khrystyna Gavrysh (UniversitĂ  degli Studi di Ferrara)

La mancata convalida dell’arresto (avvenuto il 19 gennaio 2025 da parte della polizia giudiziaria di Torino) di Osama Elmasry Njeem (conosciuto anche come Osama Almasri Njeem), cittadino libico, da parte della Corte d’appello di Roma in data 21 gennaio 2025, nonostante la pendenza di una richiesta di consegna da parte della CPI, ai sensi dell’art. 89, par. 1, Statuto della CPI (Statuto), sta mettendo sotto una lente di ingrandimento i rapporti di cooperazione verticale dell’Italia con la Corte penale internazionale (CPI). Tali rapporti sono regolati dalla l. 20 dicembre 2012, n. 237 concernente le norme per l’adeguamento alle disposizioni dello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale.

La richiesta di consegna di Osama Elmasry Njeem ha rappresentato la prima significativa verifica della cooperazione dell’Italia con la CPI.

Il cittadino libico è, infatti, accusato dal giudice internazionale di aver commesso molteplici crimini durante il suo operato nella prigione di Mitiga (Libia) a partire dal 15 febbraio 2015 (Situation in Libya), situazione deferita alla CPI dal Consiglio di sicurezza nella risoluzione 1970 (2011). Nel corso del periodo sotto indagine, l’accusato ha rivestito il ruolo del direttore dell’Istituzione di Riforma e Riabilitazione della Polizia Giudiziaria presso il Ministero della Giustizia a Tripoli, con il compito di supervisionare le prigioni, tra cui per l’appunto quella di Mitiga. Njeem era, inoltre, membro di Tripoli-based Special Deterrence Forces (SDF/RADA), nelle fila del quale egli prese parte agli scontri armati con la Brigada 444, affiliata al Ministero della Difesa libico, che causarono diverse vittime e feriti tra la popolazione civile (si tratta solo di due dei vari gruppi armati che si contendono il potere in Libia a seguito della caduta del regime guidato da Gheddafi; sul punto v. Amnesty International, “Every Day We Die a Thousand Times”. Impunity For Crimes gainst Humanity in Tarhouna, Libya, 2024). In tale veste l’accusato avrebbe compiuto svariati crimini internazionali, oggetto del mandato di arresto internazionale del 18 gennaio 2025, tra cui i crimini di guerra e i crimini contro l’umanitĂ  (vedi il comunicato stampa del Procuratore generale della CPI del 22 gennaio 2025, Situation in Libya: ICC arrest warrant against Osama Elmasry Njeem for alleged crimes against humanity and war crimes).  In particolare, gli sono stati contestati i seguenti crimini di guerra: violazione della dignitĂ  personale ai sensi dell’art. 8, par. 2, lett. c), ii), dello Statuto; trattamento crudele ai sensi dell’art. 8, par. 2, lett. c), i) dello Statuto; tortura ai sensi dell’art. 8, par. 2, lett. c), i) dello Statuto; stupro e violenza sessuale ai sensi dell’art. 8, par. 2, lett. e), vi), dello Statuto; e omicidio ai sensi dell’art. 8, par. 2, lett. c), i), dello Statuto. Inoltre, egli è accusato di seguenti crimini contro l’umanitĂ : prigionia ai sensi dell’art. 7, par. 1), lett. e), dello Statuto; tortura ai sensi dell’art. 7, par. 1, lett. f), dello Statuto; stupro e violenza sessuale ai sensi dell’art. 7, par. 1, lett. g), dello Statuto; omicidio ai sensi dell’art. 7, par. 1, lett. a), dello Statuto; e persecuzione ai sensi dell’art. 7, par. 1, lett. h), dello Statuto. Come chiarito dal Procuratore stesso, siffatti crimini sarebbero stati compiuti per ragioni di natura ideologica, ossia “for religious reasons (such as being Christian or atheist); for their perceived contraventions to SDF/RADA’s religious ideology (e.g. suspected of ‘immoral behaviour’ and homosexuality); their alleged support or affiliation to the other armed groups (…)” (v. il comunicato stampa del 22 gennaio 2025, cit.).

Lo stesso giorno in cui è stato emesso il mandato di arresto da parte delle I Camera preliminare della CPI, la Cancelleria della CPI ha trasmesso una richiesta di cooperazione a sei Stati, tra cui anche l’Italia, mediante gli organismi individuati da ciascuno di essi, Ministero della giustizia nel caso dell’Italia. Contestualmente è stata fatta la richiesta all’Interpol di emettere una red notice. Nonostante la richiesta di cooperazione sia stata resa pubblica mediante un comunicato stampa del Ministero della giustizia del 21 gennaio 2025 (Corte Penale Internazionale, Nordio valuta invio atti al Procuratore Generale di Roma sul caso Habish), lo stesso giorno Elmasry è stato liberato per mancata convalida dell’arresto e mancata emissione di una misura cautelare, e successivamente scortato con un volo di Stato nel suo Paese di origine, dove – è inutile dirlo – è stato accolto da una folla di sostenitori (v. Almasri a Tripoli, portato in trionfo tra cori di scherno per l’Italia – Video, 22 gennaio 2025).

Venendo, dunque, al quadro giuridico – sia nazionale, che internazionale – applicabile in tale materia, giova anzitutto ricordare che tutti gli Stati parti dello Statuto – compresa l’Italia, che lo ha ratificato con la l. 12 luglio 1999, n. 232 – hanno l’obbligo generale di piena cooperazione con la CPI ai sensi dell’art. 86 dello Statuto (in dottrina, v. Chiavario). L’art. 88 dello Statuto aggiunge che, “[s]tates Parties shall ensure that there are procedures available under their national law for all of the forms of cooperation which are specified under this Part”. Inoltre, secondo l’art. 59 dello Statuto, “[a] State Party which has received a request for provisional arrest or for arrest and surrender shall immediately take steps to arrest the person in question in accordance with its laws and the provisions of Part 9”. Ai sensi dell’art. 89, par. 1, dello Statuto, riguardante nello specifico la consegna di persone alla Corte, “(…) States Parties shall, in accordance with the provisions of this Part and the procedure under their national law, comply with requests for arrest and surrender”. Infine, l’art. 184, par. 1, delle Regole di procedura della Corte stabilisce che “[t]he requested State shall immediately inform the Registrar when the person sought by the Court is available for surrender”.

Come accennato poc’anzi, l’ordine di esecuzione contenuto nella legge n. 232 del 1999 è stato integrato dalla normativa di attuazione contenuta nella legge 237 del 2012, il cui art. 1 sancisce che “[l]o Stato italiano coopera con la Corte penale internazionale conformemente alle disposizioni dello Statuto della medesima Corte, (…) e della presente legge, nel rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano”. La competenza esclusiva a curare siffatti rapporti di cooperazione è attribuita al Ministro della giustizia ai sensi dell’art. 2, 1° comma, della medesima legge, il quale “dà corso alle richieste formulate dalla Corte penale internazionale, trasmettendole al procuratore generale presso la corte d’appello di Roma perché vi dia esecuzione”. A tal fine, e dunque, “[p]er il compimento degli atti di cooperazione richiesti [si può ricorrere all’applicazione di] norme del codice di procedura penale”, come previsto dall’art 3, della l. 237/2012. Siffatta disposizione è, del resto, espressione di un principio generale sancito in materia di cooperazione dall’art. 696, 3° comma, c.p.p., in base al quale, si applicano le disposizioni comuni, “[s]e le norme [di diritto internazionale o europeo] indicate ai commi 1 e 2 mancano o non dispongono diversamente”.

Mentre né lo Statuto della CPI (sul punto v. anche Babaian, pp. 108-109), né la l. 237 del 2012 prevedono cause di rifiuto della consegna, l’art. 697, 1° comma bis, c.p.p., stabilisce che “[i] Ministro della giustizia non dà corso alla domanda di estradizione quando questa può compromettere la sovranità, la sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato”.

L’ordinanza del 21 gennaio 2025 di mancata convalida dell’arresto di Elmasry Njeem (reperibile su Giurisprudenza penale web) giustifica siffatto provvedimento con alcune argomentazioni non prive di contraddizioni tanto estrinseche in relazione al quadro giuridico così individuato, quanto intrinseche.

La Corte d’appello di Roma, dopo aver stabilito la propria competenza ai sensi degli articoli 4 e 15 della l. 237/2012 e ricordato che gli atti le sono stati trasmessi dalla polizia giudiziaria di Torino ai sensi dell’art. 11 della medesima legge concernente l’applicazione della misura cautelare in carcere, contestualmente alla loro trasmissione al Ministro della giustizia il 19 gennaio 2025, chiarisce che, “[p]ur a fronte della correttezza del richiamo normativo (art. 11), la procedura in concreto attuata dagli operanti è stata, invece, quella prevista per le procedure estradizionali dall’art. 716 c.p.p., che prevede la possibilità dell’arresto d’iniziativa da parte della polizia giudiziaria dei soggetti attinti da mandati di arresto internazionale a fini estradizionali. Diversamente la Legge 237/2012 (…) non prevede tale possibilità per l’Autorità di polizia giudiziaria ma prescrive una procedura analiticamente scandita dall’art. 11 per i casi in cui la richiesta di consegna da parte della Corte penale internazionale sia già pervenuta e dall’art. 14 per i casi in cui tale richiesta non sia ancora pervenuta” (p. 2 dell’Ordinanza). La Corte prosegue affermando che, “(…) sembra appena il caso di osservare che la procedura applicativa della misura cautelare prevista dalla predetta normativa speciale, prescrive una prodromica e irrinunciabile interlocuzione tra il Ministro della Giustizia e la procura generale presso la corte d’appello di Roma” (p. 2 dell’Ordinanza). Nel caso di specie invece la polizia giudiziaria avrebbe effettuato l’arresto ai sensi dell’art. 716 c.p.p.. L’applicazione della norma in questione non sarebbe giustificata dall’art. 3 della l. 237/2012, in quanto “la applicazione delle norme richiamate dal predetto art. 3 della legge è possibile soltanto laddove la legge stessa non abbia provveduto sul punto” (p. 2 dell’Ordinanza). Nella fattispecie concreta, infatti, “deve inequivocabilmente accedersi al principio secondo cui Ubi lex voluit dixit, in virtù del quale l’arresto d’iniziativa della polizia giudiziaria nella procedura di consegna su mandato della Corte p.i. deve ritenersi escluso in quanto non espressamente previsto dalla normativa speciale che, come detto, ha specificamente previsto ogni adempimento relativo alla compressione dello status libertatis della persona”.

È curioso, anzitutto, osservare come la Corte d’appello di Roma si ritenga competente ai sensi dell’art. 4 della l. 237/2012, in combinato disposto con l’art. 15 della l. 237 della l. 237/2012, salvo poi basare in parte la propria decisione proprio sulla circostanza che tale norma non è stata rispettata. Infatti, le alternative sono due: o la Corte d’appello di Roma era competente a decidere sulla convalida dell’arresto, o forse avrebbe dovuto esserlo la Corte d’appello di Torino, ossia luogo dell’arresto del cittadino libico (ipotesi questa prevista dall’art. 10, 1° comma, c.p.p. in relazione alla competenza per reati commessi all’estero). Infatti, ai sensi dell’art. 4, 3° comma, della l. 237/2012, “[l]a corte d’appello di Roma, ove ne ricorrano le condizioni, dà esecuzione alla richiesta con decreto”, mentre l’art. 15 della stessa legge individua espressamente la Corte d’appello di Roma come giudice competente. Considerato che il Ministro della giustizia non possiede alcuna discrezionalità politica ai sensi dell’art. 4 della l. 237/2012 circa il rifiuto della richiesta di cooperazione con la CPI, essendo lo stesso un mero veicolo nella trasmissione di tale richiesta, appare assai difficile inquadrare il suo intervento come un requisito necessario per concedere la convalida dell’arresto. Laddove, invece, siffatta autorità giudiziaria avesse ritenuto – come ha fatto – tale condizione come necessaria, nulla toglie che la giurisdizione italiana potesse comunque essere esercitata in funzione di altri criteri individuati dagli art. 7 c.p. ss. In quest’ultima ipotesi, il fascicolo avrebbe potuto essere trasmesso alla autorità competente, ossia – come anticipato poc’anzi – quella del luogo dell’arresto del soggetto.

In secondo luogo, l’art. 11 della l. 237/2012 non prevede alcunché in materia di competenza ad eseguire l’arresto, limitandosi a stabilire che “il procuratore generale presso la corte d’appello di Roma, ricevuti gli atti, chiede alla medesima corte d’appello l’applicazione della misura della custodia cautelare nei confronti della persona della quale è richiesta la consegna”. Nel caso di specie tale misura non è però stata richiesta proprio per mancato intervento del Ministro della giustizia, il quale era stato “interessato da questo Ufficio” (p. 4 dell’Ordinanza). Non sono presenti altre norme specifiche in materia di arresto – misura precautelare (Gaito, cit.) – nella l. 237/2012 concernenti la sua esecuzione, circostanza questa che giustifica il ricorso all’applicazione complementare della disciplina del Libro XI del c.p.p. L’interpretazione fornita dalla Corte d’appello di Roma, invece, da un lato è contra legem, in quanto in contrasto con l’art. 3, 1° comma, l. 237/2012, il quale prevede che “[i]n materia di consegna, di cooperazione e di esecuzione di pene si osservano, se non diversamente disposto dalla presente legge e dallo statuto, le norme contenute nel libro undicesimo, titoli II, III e IV, del codice di procedura penale”, tra cui anche l’art. 716 c.p.p. Dall’altro lato, siffatto approccio implica altresì una interpretazione restrittiva dell’art. 59 Statuto CPI, ponendosi in contrasto con l’oggetto e lo scopo dello Statuto medesimo, ossia con il suo telos – e, dunque, anche con l’art. 31, par. 1, della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (a tal proposito v. Dörr e Schmalenbach, v. anche Gavrysh) – improntato alla esigenza di trarre alla giustizia i responsabili dei crimini internazionali e alla massima cooperazione degli Stati a tal fine (v. il preambolo dello Statuto). Infine, la lettura dell’art. 11 della l. 237/2012 offerta dalla Corte d’appello di Roma si pone in contrasto anche con l’obbligo della sua interpretazione conforme rispetto allo Statuto della CPI (sull’argomento in generale v. ampiamente Salerno).

A questo punto sorge, tuttavia, un altro problema. L’art. 716 c.p.p. dispone, infatti, che, “[n]ei casi di urgenza, la polizia giudiziaria può procedere all’arresto della persona nei confronti della quale sia stata presentata domanda di arresto provvisorio (…). L’autorità che ha proceduto all’arresto (…) pone l’arrestato a disposizione del presidente della corte di appello nel cui distretto l’arresto è avvenuto, mediante la trasmissione del relativo verbale”. Pertanto, anche in applicazione di tale norma, quantomeno la convalida dell’arresto era di competenza della Corte d’appello di Torino, senza peraltro l’esigenza di alcun intervento preventivo da parte del Ministro della giustizia (sul punto v. Gaito (a cura di), Codice di Procedura Penale commentato, Torino, 2012). Arresto che comunque doveva essere convalidato in forza dell’art. 59 Statuto CPI, norma di natura self-executing, a parere della scrivente, in forza dell’ordine di esecuzione contenuto nella legge di autorizzazione alla ratifica dello Statuto, che vincola tutti i poteri dello Stato in egual misura (sulla natura self-executing di norme di diritto internazionale v. in maniera esaustiva B. Conforti; R. Baratta); il linguaggio giuridico della disposizione non lascia, infatti, alcun margine circa una tale interpretazione (Babaian, p. 109; Klamberg, p. 432; Schabas, p. 903 ss.).

Non essendo il Ministro della giustizia altro che un canale di comunicazione con la CPI, non si vede come l’irritualità del suo mancato intervento – di natura meramente procedurale – possa aver condotto un giudice – pur in concreto competente – a violare un obbligo internazionale di natura vincolante anche in capo al medesimo. Anche volendo abbracciare un approccio procedurale più rigoroso, la Corte d’appello di Roma si sarebbe potuta dichiarare priva di competenza, rimettendo gli atti alla Corte d’appello di Torino. Nessuna di queste due strade è stata però intrapresa.

Veniamo ora alla condotta del Ministro della giustizia Carlo Nordio. Come si legge nella già menzionata ordinanza della Corte d’appello di Roma, il Ministro Nordio veniva informato il 19 gennaio 2025 dell’arresto di Osama Elmasry Njeem dalla DIGOS di Torino, e sollecitato il 20 gennaio 2025 dall’ufficio del Procuratore presso la Corte d’appello di Roma. In un comunicato stampa del 21 gennaio 2025, lo stesso giorno in cui la Corte d’appello di Roma si riuniva per decidere sulla convalida e lo stesso giorno in cui scadevano le 48 ore garantite dall’art. 13 della Costituzione per trarre l’arrestato davanti all’autorità giudiziaria, il Ministro emetteva un comunicato nel quale annunciava: “È pervenuta la richiesta della Corte penale internazionale di arresto del cittadino libico Najeem Osema Almasri Habish. Considerato il complesso carteggio, il Ministro sta valutando la trasmissione formale della richiesta della CPI al Procuratore generale di Roma, ai sensi dell’articolo 4 della legge 237 del 2012” (cit. supra). Il tempismo non è certamente dei migliori, considerando anche che la stessa Corte d’appello di Roma aveva ormai ricevuto gli atti da due giorni. Tuttavia, secondo quanto previsto dall’art. 390 c.p.p., “[i]l giudice fissa l’udienza di convalida al più presto e comunque entro le quarantotto ore successive [alla richiesta di convalida] dandone avviso, senza ritardo, al pubblico ministero e al difensore”. Considerando che la richiesta di convalida, come si apprende dalla Ordinanza (p. 1) era pervenuta lo stesso giorno della sua emissione, la Corte di appello avrebbe potuto senza dubbio temporeggiare, sfruttando tutto il margine temporale concesso dall’art. 390 c.p.p. Tale circostanza viene ulteriormente confermata laddove si voglia sostenere l’applicazione dell’art. 716 c.p.p. al caso di specie. Tale norma, al 3° comma, c.p.p., prevede infatti che la Corte d’appello ha novantasei ore dall’arresto per disporre il provvedimento di convalida del medesimo. La norma stabilisce, inoltre, che, “[q]uando non deve disporre la liberazione dell’arrestato, il presidente della Corte di appello, entro le successive quarantotto ore, convalida l’arresto con ordinanza disponendo, se ne ricorrono i presupposti l’applicazione di una misura coercitiva”. La Corte d’appello, in tale ipotesi, informa il Ministro della giustizia, che ha dieci giorni dalla convalida per richiederne il mantenimento della misura, che in caso contrario viene revocata (art. 716, 3° e 4° comma, c.p.p.). Questa evidentemente poteva essere una delle strade da percorrere.

Ciò non di meno, lo stesso giorno l’accusato veniva non solo liberato “[i]n assenza di richiesta di applicazione di una misura cautelare da parte del Procuratore generale per mancata trasmissione degli atti della Corte penale internazionale di competenza ministeriale” (p. 4 dell’ordinanza), ma anche prontamente attinto da un decreto di espulsione del Ministro dell’interno Matteo Piantedosi. Espulsione questa eseguita per motivi di sicurezza nazionale, come chiarito dal Ministro stesso nel corso di un’interrogazione parlamentare del 23 gennaio 2025 sull’argomento (anche questa basata su fatti controvertibili, ossia che “l’arresto non sarebbe stato convalidato per mancata comunicazione preliminare al Ministero (…); in particolare l’errore sarebbe da addebitarsi alla Questura di Torino che non avrebbe comunicato preventivamente l’arresto al Ministro competente”, circostanza contraddetta dal testo dell’ordinanza della Corte d’appello di Roma, cit., p. 2 e dal comunicato stampa del Ministro Nordio del 21 gennaio 2025, cita.). Il Ministro dell’interno ha affermato, infatti, che, “[a] seguito della mancata convalida dell’arresto da parte della Corte d’appello di Roma, considerato che il cittadino libico era «a piede libero» in Italia e presentava un profilo di pericolosità sociale, come emerge dal mandato di arresto emesso in data 18 gennaio dalla Corte Penale Internazionale, ho adottato un provvedimento di espulsione per motivi di sicurezza dello Stato”.

D’altro canto, l’assenza di una tempestiva iniziativa da parte del Ministro Nordio emerge anche dal già menzionato comunicato stampa della CPI, nel quale si chiarisce che “[t]he Court is seeking, and is yet to obtain, verification from the authorities on the steps reportedly taken” (cit., supra).

Il risultato combinato della condotta di entrambi i Ministri e della avventata decisione della Corte d’appello di Roma, rende lo Stato italiano inadempiente innanzi agli obblighi di cooperazione previsti dallo Statuto della CPI. La mancata cooperazione con la Corte può essere contestata allo Stato parte inadempiente ai sensi dell’art. 87, par. 7, dello Statuto, secondo il quale, “[w]here a State Party fails to comply with a request to cooperate by the Court contrary to the provisions of this Statute, thereby preventing the Court from exercising its functions and powers under this Statute, the Court may make a finding to that effect and refer the matter to the Assembly of States Parties or, where the Security Council referred the matter to the Court, to the Security Council” (sull’argomento v. più in generale Staiano). Pertanto, le conseguenze della violazione dell’obbligo di cooperazione variano a seconda che la situazione sia stata oggetto di un referral da parte del Consiglio di sicurezza ai sensi dell’art. 13, lett. b), dello Statuto, o meno. Ebbene, come chiarito in precedenza, la situazione in Libia è stata rimessa alla CPI proprio da parte del Consiglio di sicurezza con risoluzione risoluzione 1970 (2011), adottata ai sensi del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite. Anche il testo di tale risoluzione “urges all States and concerned regional and other international organizations to cooperate fully with the Court and the Prosecutor” (par. 5 della risoluzione). A prescindere dall’ipotesi alquanto remota che il Consiglio di sicurezza si pronunci sulla violazione dell’obbligo di cooperazione da parte della Repubblica italiana, la Corte si è già attivata – ai sensi dell’art. 109, par. 3 del Regolamento – di “hear from the requested State”, per capire se vi siano ragioni fondate a giustificare la mancata cooperazione con la stessa. Sarà interessante vedere quali saranno effettivamente le argomentazioni che lo Stato italiano addurrà per spiegare una condotta dei suoi organi così palesemente contraria ad obblighi internazionali.

Data articolo:Fri, 24 Jan 2025 17:40:15 +0000

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