Mentre a Roma la politica sta decidendo se accelerare o bloccare la sanatoria urbanistica, a Milano i procedimenti giudiziari vanno avanti. Ieri è arrivato il primo rinvio a giudizio. Otto persone andranno a processo, prima udienza l’11 aprile, per abusi edilizi. Sono i costruttori Stefano e Carlo Rusconi, il progettista Ermanno Beretta e cinque dipendenti del Comune: Giovanni Oggioni e Franco Zinna (ex dirigenti dell’Urbanistica), Francesco Carrillo (dirigente del Sue, Sportello unico per l’edilizia) e due funzionari del Sue.
Lo ha deciso la giudice Teresa De Pascale accogliendo gli elementi d’accusa raccolti dai pm Mauro Clerici, Paolo Filippini e Marina Petruzzella, coordinati dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, a proposito della Torre Milano, un grattacielo di 24 piani costruito in via Stresa.
Per un’altra operazione, un palazzo costruito dentro un cortile in via Fauchè, i pm hanno già disposto una citazione diretta a giudizio, senza passare dall’udienza preliminare. La Torre Milano è stata “qualificata come ristrutturazione edilizia, con totale demolizione e ricostruzione e recupero integrale della superficie lorda di pavimento preesistenteâ€. Secondo la giudice, invece, “l’opera andava integralmente qualificata di nuova costruzioneâ€, come un “organismo edilizio radicalmente nuovoâ€.
È uno dei miracoli del “rito ambrosianoâ€, la prassi instaurata dal Comune di Milano di lasciar costruire senza seguire le leggi urbanistiche, con semplici autodichiarazioni del costruttore (la Scia, segnalazione certificata d’inizio attività ), senza un piano attuativo che calcoli i servizi necessari per l’arrivo in una zona di centinaia di nuovi abitanti, e senza far pagare ai costruttori gli oneri per realizzarli.
A dare il via libera alla Torre Milano fu una “determina dirigenziale†che si è sostituita alle leggi urbanistiche, contraddicendole e stabilendo che la torre poteva essere considerata una “ristrutturazione†dei due piccoli edifici al cui posto era stata costruita, mentre era con tutta evidenza una “nuova costruzioneâ€.
Quella “determina dirigenziale†fu firmata nel 2018 da Oggioni, allora direttore del Sue, e da Zinna, allora capo della Direzione urbanistica del Comune. Secondo l’ipotesi d’accusa, i due dirigenti avrebbero così procurato un “ingiusto vantaggio economico†ai costruttori, facendo pagare gli oneri per una “ristrutturazioneâ€, ben inferiori a quelli di una “nuova costruzioneâ€.
La giudice De Pascale ha firmato anche una sentenza di non luogo a procedere per un’accusa di falso contestata a uno degli imputati, ma ormai caduta in prescrizione, e di non luogo a procedere per il reato di abuso d’ufficio, contestato dalla Procura, ma ormai abrogato. Non è un “proscioglimento nel meritoâ€, puntualizza la giudice, ma solo per “intervenuta estinzione del reatoâ€: a causa della sua cancellazione da parte della politica, la stessa che ora sta discutendo se andare avanti al Senato con l’approvazione della salva-Milano, la legge voluta dal sindaco Giuseppe Sala con l’obiettivo di radere al suolo questa e tutte le altre inchieste urbanistiche della Procura di Milano.
Silvio Berlusconi non c’è più, ma la sentenza della Cassazione sul processo Ruby 3, a saperla leggere, ci dice molte cose niente affatto archeologiche. Le 26 pagine della motivazione sono innanzitutto uno doppio schiaffo giuridico al collegio del Tribunale di Milano, presieduto da Marco Tremolada con a latere Mauro Gallina e Silvana Pucci, che nel febbraio 2023 hanno assolto Berlusconi e le ragazze dei festini di Arcore.
No, spiegano i giudici della Cassazione: “Il momento in cui il teste assume la veste di pubblico ufficiale è al più tardi il momento dell’ammissione della prova, a prescindere da quello della effettiva citazioneâ€. Dunque le 21 ragazze erano eccome “pubblico ufficialeâ€, e dovevano essere processate per i fatti pacificamente accertati: avevano ricevuto soldi e regali da Berlusconi (per almeno 4 milioni di euro) e avevano mentito ai giudici dei processi Ruby 1 e Ruby 2, raccontando le notti di Arcore come “cene elegantiâ€.
Secondo errore: i giudici Tremolada-Gallina-Pucci hanno risolto la vicenda assolvendo tutti come richiesto dalla difesa Berlusconi, senza prendere in considerazione il fatto che l’imputazione per “corruzione in atti giudiziari†(articolo 319 ter del codice penale) poteva essere eventualmente sostituita dall’imputazione per un altro reato, “intralcio alla giustizia†(articolo 377), che punisce chi offre denaro a un teste per farlo mentire, senza che il teste poi realizzi la falsa testimonianza. In questo caso, sarebbe stato condannabile solo Berlusconi e non le ragazze testimoni.
I giudici Tremolada-Gallina-Pucci sonoramente sconfitti in punto di diritto. Piena vittoria del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e del sostituto procuratore Luca Gaglio, che hanno sostenuto l’accusa nel processo Ruby 3 e hanno poi presentato il ricorso contro le assoluzioni direttamente in Cassazione (per saltum), ottenendo una piena conferma delle loro tesi.
Una bella soddisfazione per Siciliano, oggi impegnata (insieme ai sostituti Marina Petruzzella, Paolo Filippini e Mauro Clerici) nelle indagini più delicate tra quelle in corso a Milano, sull’urbanistica per i grattacieli tirati su con titoli edilizi considerati fuori legge.
Negli ultimi giorni sono arrivate la condanna in appello a Paolo Bellini e la conferma in Cassazione della condanna a Gilberto Cavallini: due sentenze che riguardano la strage di Bologna del 2 agosto 1980 e che, dopo le condanne già definitive a Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, blindano la lettura del più grave attentato terroristico mai compiuto in Italia.
È stato un attacco politico-eversivo che fa parte di una lunga catena iniziata il 12 dicembre 1969 in piazza Fontana a Milano. È stata una strage realizzata dai neofascisti entrati in azione a Bologna con due gruppi di fuoco. È stata un’operazione finanziata, coperta e depistata da apparati dello Stato nel quadro geopolitico del mondo diviso in due blocchi, con la partecipazione attiva della P2 di Licio Gelli che era la custode, dentro e fuori le istituzioni, degli inscalfibili equilibri atlantici.
Le due sentenze confermano dunque l’esistenza, nel sottosuolo della storia italiana, di una invisibile linea nera che interviene a minacciare e condizionare la politica con operazioni coperte, azioni illegali (e criminali) legittimate dai rapporti internazionali e realizzate da “agenzie†di volta in volta tollerate, nutrite, utilizzate da apparati statuali: gruppi neofascisti (specialmente Ordine nuovo e Avanguardia nazionale), supergruppi criminali (come la banda della Magliana), organizzazioni mafiose (come Cosa nostra, ma anche la ’ndrangheta, attive dal progettato golpe Borghese del 1970, alla strage di Natale del 1984, fino alla nuova strategia della tensione del 1992-94).
Per comprendere davvero la storia italiana è necessario allora scendere sotto le onde della politica e calarsi negli abissi delle vicende segrete della Repubblica. È questo il cuore nero con cui bisogna fare i conti. A quelle profondità , è inevitabile incontrare storie, personaggi, apparati che arrivano fino al nostro presente. In nome dell’anticomunismo e della fedeltà atlantica sono stati commessi nel nostro Paese “crimini inconfessabili†(come argomenta fin dal titolo il nuovo libro di Giuliano Turone edito da Fuoriscena) con cui è difficile fare i conti ancora oggi.
È questo il nervo scoperto dell’attuale maggioranza di governo: non tanto il rapporto con il fascismo storico, che sopravvive per lo più come nostalgia di chi tiene in salotto la paccottiglia dei busti di Mussolini o va a rendere omaggio ai caduti di Salò al servizio degli occupanti nazisti; ma il rapporto con la storia nera del dopoguerra.
È quella con il neofascismo la rottura che sarebbe necessaria. Invece il pantheon di Giorgia Meloni ospita “padri†come Pino Rauti, fondatore di Ordine nuovo, da cui esce alla vigilia della strage di piazza Fontana quando rientra nel Msi sostenendo, con rara preveggenza, che era tempo di “aprire l’ombrelloâ€. E come Giorgio Almirante, leader di quel Msi che è stato il partito che ha dato via via ospitalità e seggi in Parlamento a tanti protagonisti dei servizi segreti e della strategia della tensione (alcuni iscritti anche alla P2), da Junio Valerio Borghese a Sandro Saccucci, da Giovanni De Lorenzo a Vito Miceli, da Gino Birindelli a Mario Tedeschi.
Proprio quest’ultimo, piduista e senatore missino della destra “moderata e in doppio pettoâ€, è indicato dalla sentenza Bellini come uno degli organizzatori della strage di Bologna, come colui che aveva l’incarico di gestire la “comunicazione†dopo l’attentato, in coppia con Federico Umberto d’Amato, la superspia dell’Ufficio Affari Riservati. Almirante è lo stesso che fa arrivare 34.650 dollari, attraverso l’avvocato missino Eno Pascoli, a Carlo Cicuttini, uno dei responsabili della strage di Peteano (tre carabinieri uccisi) per finanziare e proteggere la sua latitanza in Spagna.
È questo l’album di famiglia della destra di governo, la “comunità politica†da cui Giorgia Meloni dichiara con orgoglio di provenire.
Era il 27 luglio 1990 quando Sergio Mattarella si dimise da ministro della Pubblica istruzione (insieme ad altri quattro ministri della sinistra democristiana) per protestare contro il frutto forse più maturo della Prima Repubblica, quella legge Mammì che, dopo anni di protezione delle aziende di Silvio Berlusconi da parte di Bettino Craxi, santificava il monopolio berlusconiano e riconosceva tre reti tv al padrone di Arcore.
Trentacinque anni dopo, Mattarella, da presidente della Repubblica, elogia Craxi, riconoscendo che “è stata una personalità rilevante degli ultimi decenni del Novecento italianoâ€, che “ha impresso un segno negli indirizzi del Paese in una stagione caratterizzata da grandi trasformazioni sociali e da profondi mutamenti negli equilibri globaliâ€.
Il capo dello Stato lo riconosce “interprete autorevole della nostra politica estera europea, atlantica, mediterranea, sostenitrice dello sviluppo dei Paesi più svantaggiati, aperta al multilateralismoâ€, che ha rafforzato “identità e valore della posizione italianaâ€.
Il “prestigio†in politica estera e il merito di aver firmato il nuovo Concordato con la Chiesa si sommano ai risultati “sul piano internoâ€: “Le politiche e le riforme di cui si fece interprete determinarono cambiamenti che incisero sulla finanza pubblica, sulla competitività del Paese, sugli equilibri e le prospettive di governoâ€. Con “una spiccata determinazione†che “caratterizzò le sue battaglie politiche, sia nel confronto tra partiti, sia in campo sociale e sindacale, catalizzando sentimenti contrastanti nel Paeseâ€.
Tangentopoli, le inchieste per corruzione e finanziamento illecito, le condanne, la latitanza all’estero sono pudicamente evocate con delicate parafrasi: “La crisi che investì il sistema politico, minando la sua credibilità , chiuse con indagini e processi una stagione, provocando un ricambio radicale nella rappresentanza. Vicende giudiziarie che caratterizzarono quel burrascoso passaggio della vita della Repubblicaâ€.
Due sentenze definitive consegnano alla storia Craxi come colui che incassò tangenti miliardarie per assegnare a Salvatore Ligresti la gestione di tutti gli assetti assicurativi di Eni; e per aver ricevuto la quota socialista (11 miliardi di lire) della “madre di tutte le tangentiâ€, la supermazzetta Enimont. Solo la prescrizione, poi, salva sia Craxi sia Berlusconi dalla sentenza All Iberian, che certifica che a Bettino arrivò la più grande delle tangenti pagate a un singolo uomo politico, 23 miliardi di lire versati dall’amico Silvio per ringraziarlo della legge MammiÌ€, quella per cui Mattarella nel 1990 si dimise da ministro.
Quanto alla politica di Craxi “lo statistaâ€, vale la pena di ricordare che, dopo aver tentato di fare il Mitterrand italiano e di battere la Democrazia cristiana, dopo la morte di Aldo Moro e il congresso Dc del 1979 cambiò schema di gioco e accettò il Caf (il patto Craxi-Andreotti-Forlani). Fu il trionfo della politica della P2. Fu proprio l’intervento di Licio Gelli a far arrivare a Craxi, nel 1980, i soldi del banchiere Roberto Calvi sul “conto Protezione†che salvarono il Psi e lo mantennero nelle mani di Bettino.
Leonardo Di Donna è il vicepresidente dell’Eni che aveva fatto finanziare il pericolante Banco ambrosiano di Calvi, con conseguente “provvigione†di 7 milioni di dollari al Psi sul “conto Protezioneâ€. Nel 1982, caduto Spadolini, Di Donna viene nominato presidente dell’Eni. “Pertiniâ€, annota Tina Anselmi, “pensa che ci sia stato un pactum sceleris fra Fanfani e Craxiâ€. Fanfani regge il governo fino all’estate del 1983. Poi, il 4 agosto, Craxi prende il suo posto ed entra a Palazzo Chigi. Con lui tornano al governo Andreotti agli Esteri e Forlani vicepresidente.
E tornano i piduisti: Pietro Longo al Bilancio, Silvano Labriola alla presidenza della commissione Affari costituzionali della Camera. Craxi rilancia la proposta piduista di passare a una Repubblica presidenziale. Venticinque anni dopo la sua morte, torna a spirare aria di presidenzialismo. E anche il capo dello Stato che si dimise contro l’accordo Craxi-Berlusconi sulla tv, ora rende omaggio allo “statistaâ€.
Saggio di Gianni Barbacetto pubblicato in «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 56, no. 10, dicembre 2023
Sono passati 30 anni, ma Mani pulite non ha ancora trovato una lettura condivisa. Anzi, il racconto dell’inchiesta sulla corruzione in Italia che nel 1992-93 ha determinato la fine del sistema dei partiti nato nel dopoguerra è diventato più slabbrato e contraddittorio. Oggetto oggi di “revisionismo†e “negazionismo†anche da parte di molti giornalisti, commentatori e politici che avevano vissuto Mani pulite e l’avevano raccontata per quello che è stata: una grande, complessa, multiforme, ma ordinaria indagine giudiziaria; non un’operazione politica. Ieri salutata – in maniera impropria – come “la rivoluzione italianaâ€, oggi viene invece da molti criticata e ritenuta l’avvio della “guerra dei 30 anniâ€, cioè dello scontro tra magistratura e politica.
Operazione politica?
Mani pulite fu una inchiesta – o meglio, una serie di inchieste – che partì nel febbraio 1992 da una piccola indagine su una tangente da 7 milioni di lire che poi, come nel gioco del domino, si allargò mazzetta dopo mazzetta e portò alla luce un pervasivo e gigantesco sistema della corruzione. Si scoprì che ogni esborso di denaro pubblico per appalti e servizi che usciva dalle casse dello Stato e delle amministrazioni pubbliche era “tassato†con una percentuale che veniva segretamente incassata e spartita dai partiti. I loro segretari amministrativi centrali e i cassieri locali gestivano in maniera riservata, ma organizzata, tutto il sistema.
Innanzitutto l’abilità investigativa dell’ex poliziotto Antonio Di Pietro, il magistrato che iniziò le indagini a Milano, e i cambiamenti del nuovo Codice di procedura penale del 1989 che aveva affidato ai pm la direzione delle inchieste e la guida della polizia giudiziaria.
Su scala più grande, fu determinante la diminuzione della disponibilità di denaro pubblico da destinare agli appalti e dunque l’assottigliarsi dei margini per le mazzette: questo rese il sistema più fragile e gli imprenditori più disponibili a denunciare i politici che continuavano a chiedere tangenti in cambio di vantaggi sempre meno lucrosi. Nei primi anni Novanta, in Italia il deficit supera il 10 per cento del Pil; il debito pubblico si assesta sopra il 100 per cento; la lira, sotto attacco sui mercati, barcolla; il tasso d’interesse sui titoli di Stato supera il 12 per cento. Sono i nodi arrivati al pettine della politica dei governi italiani degli anni Ottanta, fatta di spesa pubblica allegra, gonfiata oltretutto dal peso delle tangenti: è questo il sistema che fu chiamato Tangentopoli; è questo il quadro economico che rese possibile Mani pulite.
Il 7 febbraio 1992 il governo di Giulio Andreotti aderisce al Trattato di Maastricht: l’Italia accetta i primi vincoli europei che rendono più difficile la spesa pubblica e il debito, e dunque anche le relative tangenti. L’arresto a Milano dell’amministratore socialista Mario Chiesa, che segna l’avvio di Mani pulite, avviene esattamente dieci giorni dopo, il 17 febbraio.
Mentre i cambiamenti economici dettavano le loro regole, nella società italiana si era intanto diffusa una dilagante insoddisfazione nei confronti dei partiti, del loro strapotere, della loro occupazione e spartizione delle istituzioni che avrebbero dovuto servire, della corruzione e impunità di cui era sospettato il sistema politico (ben prima di Mani pulite, le barzellette e le vignette satiriche sui “socialisti ladri†erano diventate fenomeno di costume).
Era profondamente cambiato anche il quadro geopolitico: la caduta del muro di Berlino aveva posto fine alla Guerra Fredda e al mondo diviso in due blocchi. Dunque l’Italia, Paese di confine tra i due blocchi, in cui la classe politica di governo era inamovibile e improcessabile per motivi geopolitici, entra in una fase nuova in cui il sistema politico diventa più flessibile.
Ecco dunque verificarsi nei primi anni ’90 del Novecento la congiunzione astrale di fattori soggettivi, giudiziari, economici, sociali, culturali, politici e geopolitici che rendono possibile il decollo delle indagini sulla corruzione. Una parte della magistratura le aveva già tentate, gli scandali politici si erano susseguiti anche negli anni precedenti, ma senza risultati rilevanti. I pochi magistrati che si erano messi in moto, a partire dai cosiddetti “pretori d’assaltoâ€, avevano dovuto limitarsi a investigare singoli episodi senza poter cogliere il carattere sistemico della corruzione; o erano stati costretti a fermarsi dinanzi ai meccanismi di reazione di un sistema politico-giudiziario ancora potente, che poteva contare su una Procura di Roma pronta ad avocare le indagini sulla politica e sugli insabbiamenti in quello che venne chiamato “il porto delle nebbieâ€.
Per qualche anno invece, a partire dal 1992, saltano le barriere protettive, le inchieste si moltiplicano in tutto il Paese e riescono a decifrare quello che non era un insieme di casi isolati e slegati fra loro, ma un sistema organico, organizzato e pervasivo di regolazione dei rapporti tra imprese e politica e di sotterranea spartizione di risorse tra i partiti. Poi furono non i giudici nei processi, ma gli elettori nelle urne, a far saltare il sistema dei partiti della cosiddetta Prima Repubblica, ormai screditati. Sorsero o si affermarono nuove forze politiche (la Lega Nord, la Rete, poi Forza Italia) e la classe dirigente del Paese fu costretta a cambiare (almeno in parte, almeno in apparenza) il quadro politico. Colui che più ne beneficiò fu il più abile figlio dell’Ancien Regime della Prima Repubblica, Silvio Berlusconi, grazie alle sue capacità imprenditoriali, ma anche mimetiche e trasformistiche, agevolate dal suo strapotere mediatico e pubblicitario.
Il nuovo sistema politico, dopo un primo ringraziamento alla magistratura per la sua azione di rinnovamento (presente nei discorsi di Berlusconi all’insediamento del suo governo nel 1994) provvide ad alzare nuove barriere protettive contro una magistratura autonoma e indipendente dalla politica e forte delle regole costituzionali dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e dell’obbligatorietà dell’azione penale. Nasce qui quella che è stata chiamata la “guerra tra magistratura e politicaâ€: una narrazione che tenta di nascondere l’eterna (e perfino comprensibile) pulsione della politica a non essere soggetta al controllo di legalità .
Toghe rosse
L’argomento più forte per cercare di dimostrare che Mani pulite sia stata un’operazione politica è quello che sostiene che le inchieste abbiano annientato i partiti di governo (soprattutto Psi e Dc) e “salvato i comunistiâ€.
A guardare i fatti, i “comunisti†non sono stati affatto salvati: il primo “politico puro†arrestato a Milano da Mani pulite, dopo il socialista Mario Chiesa che era un amministratore a capo di un ricovero per anziani, fu il pidiessino ex Pci Epifanio Li Calzi, assessore comunale all’Edilizia. Dopo di lui, finì in carcere o sotto indagine l’intera dirigenza del Pds milanese (il partito erede del Pci): i “cassieri†occulti Luigi Carnevale e Sergio Soave, il segretario provinciale Roberto Cappellini, l’ex vicesindaco Roberto Camagni, l’assessore Massimo Ferlini, il segretario provinciale Barbara Pollastrini, il parlamentare Gianni Cervetti (gli ultimi due furono poi assolti).
Le indagini giunsero fino a Roma, al tesoriere nazionale del partito, Marcello Stefanini, e al responsabile del patrimonio immobiliare, Marco Fredda. Furono arrestati e condannati il funzionario del partito Primo Greganti e il responsabile del settore energia Giovanni Battista Zorzoli. Il pool Mani pulite indagò anche sulle coop rosse, sugli uomini del Pds dentro Enel e quelli coinvolti nel grande business dell’Alta velocità . E tentò d’indagare anche su una misteriosa valigia piena di soldi che Raul Gardini, il numero uno di Enimont, aveva portato – secondo alcune testimonianze – nella storica sede del Pci di via delle Botteghe Oscure a Roma. I magistrati non riuscirono però a individuare il destinatario, anche per la morte dei principali protagonisti della vicenda.
Le indagini ricostruirono un sistema in cui i partiti di governo partecipavano direttamente alla spartizione delle tangenti, mentre il Pci-Pds era finanziato attraverso una quota degli appalti pubblici assegnati alle cooperative rosse che poi finanziavano, perlopiù legalmente, il partito. Tranne a Milano, dove la corrente “migliorista†del Pci-Pds era entrata a pieno titolo nel sistema delle mazzette con, appunto, i “cassieri†Carnevale e Soave; e in alcuni sistemi nazionali come quelli dell’energia e dell’Alta velocità .
I numeri di Mani pulite sono notevoli. La sola Procura di Milano aprì fascicoli su 4.520 persone, per 3.200 chiese il rinvio a giudizio (perlopiù per reati di corruzione, concussione, ricettazione, illecito finanziamento ai partiti), per 1.320 posizioni trasmise il fascicolo ad altre Procure. Per 609 persone arrivò una “condanna†già del giudice dell’udienza preliminare (con rito abbreviato o per patteggiamento), 390 posizioni si esaurirono davanti al gup per prescrizione o per estinzione del reato. Il Tribunale giudicò 1.075 persone. Ne condannò 645; altre 430 furono prosciolte, ma solo 161 con un’assoluzione nel merito, 269 per estinzione del reato, di cui 243 per prescrizione, istituto giuridico che in Italia salva molti imputati dalla condanna.
I critici di Mani pulite hanno allineato negli anni molte accuse ai magistrati che hanno condotto l’inchiesta. Le più ricorrenti sono l’abuso della carcerazione preventiva, usata – dicono alcuni – per far confessare gli indagati e addirittura come una forma di tortura. L’analisi delle inchieste sembra smentire queste accuse. Si era creato nel Paese un clima di consenso entusiasta per le indagini anticorruzione. Sui muri della città comparvero scritte inneggianti ai pm del pool: «Grazie Di Pietro», «Davigo, Colombo, andate fino in fondo». Il tema «Mani pulite» ispirò fiaccolate, feste in discoteca, t-shirt, gadget. Le tradizionali luci natalizie in corso Buenos Aires, la via dello shopping milanese, nel 1993 furono aperte da una scritta inneggiante a Di Pietro. Un clima festoso, nient’affatto greve, con – secondo i sondaggi di quegli anni – la stragrande maggioranza dei cittadini, di destra e di sinistra, che sosteneva Mani pulite, nella convinzione che la legge fosse diventata davvero uguale per tutti e nella speranza che fosse l’inizio di un rinnovamento duraturo della politica.
Questo clima psicologico favoriva le confessioni, le testimonianze spontanee, le chiamate di correo. Le carcerazioni preventive furono lunghe soltanto per alcuni indagati. Di certo la decisione di mandarli in carcere veniva presa non dai sostituti procuratori del pool di Mani Pulite, ma dai giudici delle indagini preliminari (i gip), come previsto dalla legge e seguendo il codice di procedura penale. Quanto alle confessioni, molti degli indagati le rendevano senza essere arrestati o ancora prima che scattassero le manette ai loro polsi («Cominciavano a parlare già al citofono», ricorda ironico l’allora pm Piercamillo Davigo).
Anche Moroni lasciò una lettera, in cui non se la prendeva con i magistrati, ma con i compagni del Psi che l’avevano emarginato e isolato. Uno di loro, Loris Zaffra, poi raccontò: «Con Moroni ne avevamo discusso la scorsa estate. Aveva molto sofferto per il cordone sanitario che gli era stato fatto attorno. Tangentopoli ha messo a nudo, oltre al giro delle tangenti, la slealtà dei rapporti politici. Sei stato arrestato? Peccato per te, entri nel cesto delle mele marce. Gli altri, che con te hanno diviso errori e responsabilità , si girano dall’altra parte. Inaccettabile».
Dopo la morte di Moroni, Bettino Craxi commentò: «Hanno creato un clima infame». Il coordinatore del pool Gerardo D’Ambrosio, addolorato ma duro, replicò: «Il clima infame l’hanno creato loro. Noi ci siamo limitati a scoprire e perseguire fatti previsti dalla legge come reati. Poi c’è ancora qualcuno che si vergogna e si suicida». E Davigo: «Le conseguenze dei delitti devono ricadere su chi li ha commessi, non su chi li ha scoperti».
Il complotto
È ricorrente anche il tentativo di spiegare l’indagine Mani pulite come un complotto internazionale ai danni del sistema politico ed economico italiano. Ordito dai “poteri fortiâ€, dalla Trilateral, dalla Cia, dagli americani che volevano mettere fine alla Prima Repubblica, dal potere economico che voleva impossessarsi delle aziende di Stato italiane.
Ad attenersi ai fatti, la verità storica appare molto più prosaica. Nel biennio 1992-93 l’Italia vive una grande trasformazione politica ed economica, nel contesto della profonda mutazione geopolitica internazionale (la fine della Guerra Fredda e del mondo diviso in due blocchi). È possibile che molti poteri, italiani e non, abbiano cercato di incunearsi in questa svolta storica per provare a pilotarla secondo i propri interessi: la massoneria tenta di sostituirsi ai partiti morenti; l’organizzazione mafiosa Cosa nostra va a caccia di nuovi referenti politici e tratta a suon di stragi nuovi equilibri con lo Stato; le centrali economiche internazionali provano a influire sulla metamorfosi del sistema italiano; alcuni imprenditori portano a casa a prezzi di saldo servizi, infrastrutture e pezzi pregiati dell’industria di Stato. Ma è difficile individuare in tutto ciò un complotto.
Gli Stati Uniti, molto attenti a ciò che accade in casa nostra fin dal dopoguerra, hanno certamente tenuto sotto osservazione l’evoluzione italiana, ma con maggiore distacco rispetto a prima, quando il nostro Paese era terra di confine tra i due blocchi, scattavano “strategie della tensione†e la Dc era blindata al governo e improcessabile. Dopo l’implosione dell’impero sovietico, gli Usa allentano la presa, lasciano che l’Italia segua il suo destino. Anche per questo le indagini di Mani pulite possono decollare.
Fango e servizi
L’operazione di denigrazione delle indagini di Mani pulite è tutt’uno con la messa sotto accusa del suo principale protagonista, il magistrato Antonio Di Pietro. È stato attaccato con potenti campagne mediatiche e con decine di inchieste giudiziarie. È stato indagato in lungo e in largo, per anni, senza che sia stato trovato un solo elemento di rilievo penale a suo carico. La Procura di Brescia, imbeccata dalle denunce degli inquisiti a Milano, ha aperto un’infinità di procedimenti sul suo conto, a cui il diretto interessato si è disciplinatamente sottoposto, dopo essersi dimesso prima dalla magistratura e poi da ministro dei Lavori pubblici. Da tutti i procedimenti è uscito prosciolto con formula piena.
Quello che resta è il fango che è stato messo in circolo in una campagna politica e mediatica durata anni e che alla fine è riuscita a raggiungere l’obiettivo di appannare l’immagine dell’uomo che nel 1992-93 era considerato «l’eroe di Mani Pulite», beatificato da gran parte della stampa nazionale e internazionale e della tv con toni enfatici e agiografici oltre ogni limite: quasi fosse un santo, veniva chiamato «la Madonna» e perfino il suo linguaggio popolano, pieno di anacoluti e avaro di congiuntivi, era lodato come «dipietrese». Poi, quando il vento cambiò, Di Pietro divenne un villico illetterato, arruffone e spregiudicato.
C’è, più in generale, una voglia di vendetta contro Mani pulite, che si manifesta nei tentativi di riscriverne la storia, di rimpiangere e rivalutare la Prima Repubblica e il sistema di Tangentopoli, di additare i magistrati come eterni nemici della politica. Senza aver fatto davvero i conti con Mani pulite in modo sereno e oggettivo, gran parte della politica ha operato nei 30 anni successivi per tentare di ridurre, a suon di riforme (o “controriformeâ€) della giustizia, il controllo di legalità della magistratura sulla politica. Più che allo «scontro tra magistratura e politica», da tre decenni assistiamo al tentativo della politica di liberarsi dal pericolo che le indagini giudiziarie (ormai condotte da una parte sempre più limitata della magistratura, e con sempre minori strumenti) possano scoprire le robuste quote di illegalità presenti nelle classi dirigenti italiane.
È iniziato il 2025, anno VI (sesto) del tira-e-molla di Giuseppe Sala sullo stadio di San Siro. Sarà l’anno buono, dice il sindaco: quello in cui Milan e Inter compreranno il Meazza a prezzo di saldo, si prepareranno ad abbatterlo e a costruire il loro nuovo stadio sul terreno comunale oggi occupato da un parco.
Tutto cominciò il 10 luglio 2019, quando le due squadre presentarono in Comune il “Progetto Stadio di Milanoâ€. La vicenda subì un’accelerazione nell’autunno 2021: come primo atto dopo la rielezione, Sala annunciò di aver accettato la proposta dei due club di abbattere il Meazza e di costruire un nuovo impianto, con un paio di grattacieli annessi, ossia l’operazione immobiliare (torre a uffici e mega-centro commerciale) con cui si ripagano lo stadio nuovo.
Cominciò una trattativa da mercato dei tappeti, in cui i club chiedevano mille (volumetrie da mani sulla città ) per ottenere cento. Una partita a poker giocata sul bluff: se il sindaco non ci dà quello che vogliamo, andiamo a farci lo stadio altrove (e con quali soldi, che le squadre non hanno?). Poi la Soprintendenza dice quello che tutti sapevano fin dall’inizio, è cioè che compiuti i 70 anni il Meazza non può essere abbattuto.
Come non ha i soldi per mettere a posto la Palazzina Liberty, la piscina Scarioni, il Lido, la pista di pattinaggio Agorà . Eppure trova 20 milioni per comprare La Maura, già in gran parte vincolata a parco, con la promessa di lasciarla a parco: dopo aver permesso la distruzione del vicino Parco dei Capitani su cui sorgerà il nuovo stadio.
Sala proclama: “L’interesse pubblico deve fare i conti con la sostenibilità economica di chi è proprietario delle due squadre milanesiâ€. Una dichiarazione davvero furba per andare a trattare con le due squadre milanesi. Una resa totale e preventiva ai fondi americani che controllano (per ora) Milan e Inter. E che potranno vendere subito dopo aver firmato l’operazione immobiliare miliardaria. Sala, ovvero il Comune, ovvero i milanesi (anche chi tifa Toro o Salernitana o odia il calcio), stanno regalando il nuovo stadio alle due squadre. “Io non voglio guadagnarci nienteâ€, dice Sala: come se il Meazza fosse suo. Non è un danno erariale, questo?
Anno cruciale, sì, il 2025. Per ciò che accadrà a San Siro, con i comitati cittadini che promettono battaglia; per ciò che succederà a Palazzo di giustizia sulle inchieste urbanistiche e in Senato sulla salva-Milano (pardon, salva-abusi); per come andranno il trasporto pubblico e i conti Atm, zavorrati dall’inutile acquisto delle quote di M4; per le proteste che crescono sui prezzi delle case e sulla mancanza di abitazioni a prezzi decenti. Buon anno a tutti.
La buona notizia è che la salva-Milano è scesa dall’Alta Velocità . Non è stata votata a scatola chiusa anche in Senato entro il 2024, come pretendevano il sindaco di Milano e la lobby dei costruttori. La cattiva notizia è che, pur imbarcata su un Intercity o su un treno per pendolari, chi l’ha promossa vuole a tutti i costi farla arrivare a destinazione.
Era partita come sanatoria valida per il passato, per tentare di cancellare con un bel colpo di spugna le inchieste aperte dalla Procura di Milano su edifici costruiti contra legem in città , grattacieli tirati su con un’autocertificazione, palazzine edificate dentro i cortili, nuove costruzioni fatte passare per “ristrutturazioniâ€, torri innalzate senza piano attuativo che calcoli e faccia pagare ai costruttori i servizi dovuti per legge ai cittadini.
Poi la salva-Milano era stata trasformata (per imposizione di Giuseppe Sala) in “legge d’interpretazione autenticaâ€, valida per sanare il passato ma anche per scassare il futuro urbanistico in tutta Italia e per sempre. Passata alla Camera come un Frecciarossa, è stata poi rallentata dalle proteste dei cittadini e dagli interventi degli esperti, tra cui i 140 professori, urbanisti, giuristi, che nel loro appello rivolto ai senatori hanno spiegato che la salva-Milano non avrebbe salvato Milano, ma avrebbe condannato l’Italia, sfasciato le regole per costruire e impoverito i Comuni italiani.
Roberto Morassut, Pd: “Approvare con delle procedure così semplificate delle trasformazioni urbane così importanti non è accettabile. Oltre certi limiti la semplificazione delle procedure diventa dittatura urbanaâ€
È nel Partito democratico che il dibattito è ora più vivace. Gli argomenti dei 140 professori (e i timori di danneggiare il corretto sviluppo delle città e di varare una norma che potrebbe essere incostituzionale) hanno convinto molti dem. La legge “non è una priorità †per Francesco Boccia, capogruppo Pd al Senato. Per il deputato Roberto Morassut “approvare con delle procedure così semplificate delle trasformazioni urbane così importanti non è accettabile. Oltre certi limiti la semplificazione delle procedure diventa dittatura urbanaâ€.
Malgrado Sala sia arrivato fino a minacciare le dimissioni da sindaco, il viaggio della legge è molto rallentato. Probabile a questo punto che al Senato siano introdotte delle modifiche al testo licenziato dalla Camera, con la necessità di un nuovo passaggio a Montecitorio. Ma come scenderà dal treno la salva-Milano? Come sarà trasformata?
C’è poi il partito della “riduzione del dannoâ€, che punta a introdurre correttivi per evitare almeno gli aspetti più devastanti della legge. Per il dem Pierfrancesco Majorino “deve essere una misura di emergenzaâ€. Necessaria “di fronte al fatto che si è creato caos interpretativo nella normeâ€: ma così non è, le leggi sono chiare, solo il “rito ambrosiano†le ha aggirate a colpi di delibere e circolari. “L’amministrazione comunale ha agito in buona fedeâ€: non è un grande argomento davanti a un giudice. “C’è la necessità di tutelare le famiglie che hanno investitoâ€: gli incolpevoli acquirenti sono stati già tutelati anche dai giudici intervenuti finora. E allora, è davvero possibile “ridurre il dannoâ€? E come? Tornando alla sanatoria per il passato?
Ecco un altro tassello di verità sulla strage di Bologna: le motivazioni della sentenza d’appello che ha condannato all’ergastolo il neofascista Paolo Bellini aggiunge elementi sugli esecutori neri, sui finanziatori (Licio Gelli), sugli uomini dello Stato che hanno coperto e depistato. Bellini, militante di Avanguardia nazionale e informatore dei carabinieri, fa parte “senza ombra di dubbio alcuno†del commando terroristico che eseguì la strage del 2 agosto 1980.
La sua presenza in stazione “era finalizzata o a trasportare, consegnare e collocare quantomeno parte dell’esplosivo†o almeno a fornire un “supporto logistico a coloro che l’esplosivo lo hanno portato e collocatoâ€. “Nella piena consapevolezza†che nella sala d’aspetto sarebbe stato fatto esplodere l’ordigno che uccise 85 persone e ne ferì altre 200.
Bellini è dunque tra gli esecutori materiali della strage, in concorso con gli altri terroristi già condannati all’ergastolo in via definitiva, Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini, e con Gilberto Cavallini condannato in appello. Mandanti, organizzatori e finanziatori il capo della loggia P2 Licio Gelli, il suo sodale Umberto Ortolani, l’ex capo del servizio segreto civile Federico Umberto D’Amato, il giornalista del Borghese e parlamentare del Msi Mario Tedeschi, tutti indagati quando erano già deceduti.
Confermate in appello anche le condanne a Piergiorgio Segatel (6 anni per depistaggio), ex capitano dei carabinieri, e a Domenico Catracchia (4 anni per false informazioni al pm ai fini di sviare le indagini), ex amministratore di condomini, per conto dei servizi segreti, in via Gradoli, a Roma, dove trovarono ospitalità alcuni dei neofascisti coinvolti nella strage di Bologna, ma anche alcuni brigatisti rossi protagonisti del caso Moro.
“È provato†che Picciafuoco, mai condannato per la strage e morto nel 2022, era in stazione, quel giorno. Come Bellini, filmato in Super 8 da un inconsapevole turista tedesco, Harald Polzer, “pochi minuti dopo l’esplosione†avvenuta alle 10.25. “È provato†che Marco Ceruti, factotum di Licio Gelli “consapevole finanziatore della strage di Bolognaâ€, era invece a Roma il 30 e il 31 luglio 1980, quando consegnò “al Fioravanti e alla Mambro (o a un loro emissario) il compenso in denaro pattuito per commettere la strageâ€.
Bellini è stato riconosciuto nel video dall’ex moglie, Maurizia Bonini, che ha anche smontato il falso alibi che aveva per anni confermato. È lui la persona dai capelli ricci ritratta nel Super 8 sul marciapiede del primo binario della stazione. I giudici d’appello ricordano che Bellini “era un infiltrato nella mafia per conto di apparati istituzionali†e che nel 1991-92 “si recò in Sicilia per incontrare Antonino Gioè, corresponsabile della strage di Capaciâ€. (Il Fatto quotidiano, 8 gennaio 2025)
Un altro colpo al pantheon nero di Giorgia Meloni
I processi per le stragi italiane – e quella di Bologna più di tutte – finiscono ogni volta per riaprire l’album di famiglia della destra italiana, quella che oggi è arrivata al governo. Con il fascismo storico, Giorgia Meloni ha regolato i conti ripetendo di non aver “mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocraticiâ€, “fascismo compreso†(salvo qualche busto di Mussolini nel salotto del presidente del Senato).
È con il neofascismo che è invece più complicato fare i conti: con la storia italiana del dopoguerra, fatta di bombe e strategie della tensione, gruppi armati e rapporti con i servizi segreti. Del resto, Fratelli d’Italia indica tra i suoi “padri†Giorgio Almirante e Pino Rauti.
Quest’ultimo, fondatore di Ordine nuovo, è uno dei protagonisti della destra neofascista italiana: a Ordine nuovo (ma dopo l’uscita di Rauti) sono addebitate le stragi di piazza Fontana a Milano e di piazza della Loggia a Brescia. Ed è Almirante in persona che fa arrivare 34.650 dollari, attraverso l’avvocato missino Eno Pascoli, a Carlo Cicuttini, uno dei responsabili della strage di Peteano (tre carabinieri uccisi) per finanziare e proteggere la sua latitanza in Spagna.
I fili tra presente e passato restano tenaci. Flaminia Pace, che dopo l’inchiesta di Fanpage sui riti fascisti e antisemiti che sopravvivono dentro Fratelli d’Italia si è dimessa dal consiglio di Gioventù nazionale, è figlia di Corrado Pace, in rapporti con Francesca Mambro e Valerio Fioravanti (condannati definitivi per la strage di Bologna), ma soprattutto, da figlia, ha continuato a vantarsi dei legami del padre con i due terroristi dei Nar.
Il direttore del settimanale Il Borghese, Mario Tedeschi, è il senatore missino della destra “moderata e in doppio pettoâ€, ma la sentenza Bellini di primo grado lo indica come colui che ha l’incarico di gestire la “comunicazione†dopo la strage di Bologna, in coppia con Federico Umberto d’Amato, la superspia dell’Ufficio Affari Riservati.
Storie vecchie? Ma che giungono fino a noi, se è vero che nel gennaio del 2019 i camerati organizzano una bicchierata fascista in sostegno di Gilberto Cavallini, condannato per la strage di Bologna in primo e secondo grado. L’organizzatore della simpatica bicchierata è Fabrizio Piscitelli detto Diabolik, capo ultrà della Lazio e trafficante di droga, che nell’agosto 2019 sarà ucciso in un agguato a Roma. In un messaggio vocale dice: “Aperitivo tra camerati più tardi, daje. Tutti presentiâ€.
Uno dei messaggi tra Diabolik e Signorelli toglie ogni dubbio: “Onore a nonno, Tuti, Concutelli, Giusva, Ciavardiniâ€. “Nonno†è il suo omonimo Paolo Signorelli, tra i fondatori di Ordine nuovo, condannato a 11 anni per banda armata e associazione sovversiva. Mario Tuti, Pierluigi Concutelli, Giusva Fioravanti e Luigi Ciavardini sono tutti terroristi neri.
L’album di famiglia dei figli, fratelli e nipoti d’Italia non lo è soltanto in senso ideologico. Il Paolo Signorelli che lavorava con Lollobrigida è nipote del Paolo Signorelli ideologo del neofascismo. La senatrice di Fratelli d’Italia Isabella Rauti è figlia di Pino Rauti. È questa la “comunità politica†da cui Giorgia Meloni rivendica orgogliosamente di provenire. (Il Fatto quotidiano, 9 luglio 2024)
Da amministratore di Expo ha tenuto comportamenti inaccettabili, che se ripetesse da sindaco sarebbero gravissimi.
1. Non ha comunicato con trasparenza i dati dei visitatori nei primi mesi dell’esposizione universale (quando erano sotto le previsioni), usando scuse buffe come quelle del caldo che avrebbe messo fuori uso i computer che controllavano gli ingressi. Non ha comunicato per mesi neppure le cifre del bilancio, sostituite con dati incompleti e ancor oggi difficilmente interpretabili. Sarebbe intollerabile una simile mancanza di trasparenza da parte del sindaco di Milano, che ha a che fare con un bilancio non da 800 milioni, come Expo, ma da 5 miliardi.
2. I suoi più stretti collaboratori sono stati coinvolti in brutte vicende giudiziarie, alcuni sono stati indagati, altri addirittura arrestati e condannati. Lui non si è accorto di niente. Come farà a garantire che la cosa non si ripeta a Palazzo Marino? È evidentemente inadatto a guidare la ben più complessa macchina del Comune di Milano.
3. Ha gestito gli appalti di Expo con grande spregiudicatezza. Per poter affidare grandi incarichi senza gara, li ha frazionati in piccoli incarichi concessi alla stessa azienda. Ha assegnato senza gara anche l’appalto per scegliere i 120 ristoratori che si sono avvicendati nella zona ristorante di Expo, sostenendo che solo la persona a cui lo ha affidato (Oscar Farinetti, amico di Matteo Renzi) è in grado, per la sua “unicità â€, di sceglierle bene. Ha aggirato l’ostacolo di avere, come amministratore delegato, un autonomo potere di spesa fino a una certa cifra (10 milioni di euro), frazionando gli incarichi e affidandone sette alla stessa azienda (la Mantovani), che nell’arco di due mesi ha ottenuto lavori per 34 milioni, più del triplo della cifra che l’amministratore delegato avrebbe potuto spendere. La scarsa trasparenza sulla obbligatoria pubblicizzazione di dati, bandi e contratti Expo è stata puntualmente rilevata dall’Anac di Raffaele Cantone, in un’incredibile e interminabile elenco di rilievi mossi alla gestione Sala. Il documento Anac del 19 dicembre 2014, è leggibile qui. Può fare il sindaco chi ha così spregiudicatamente gestito il denaro pubblico?
5. Malgrado gli allarmi ripetutamente lanciati nelle sue relazioni semestrali dal Comitato antimafia presieduto da Nando dalla Chiesa e dal presidente della Commissione comunale antimafia guidata da David Gentili, Sala si guarda bene dal far scattare controlli severi e a sorpresa nei cantieri, con gran gioia delle cosche e ulteriore lavoro per la Procura, che apre un’indagine segreta ancora in corso. Può guidare l’amministrazione chi ha così sottovalutato e ignorato il lavoro del Comitato e della Commissione antimafia?
6. Affida un incarico a un noto architetto. Per non fare una gara, usa il solito trucco: divide il lavoro in tre parti. In totale, l’incarico è di 110 mila euro. Ma non basta: a lavoro finito, l’architetto incassa ben 800 mila euro: pagati, con soldi Expo, non da Expo, ma da una società di diritto privato che ha un accordo con Expo (Fiera Milano spa). Nello stesso periodo, il medesimo architetto viene chiamato da Sala a lavorare per la sua villa al mare. Può fare il sindaco chi ha così operato in un incredibile guazzabuglio tra lavori privati e lavori pubblici?
7. In data 19 febbraio 2015, Sala firma una dichiarazione, obbligatoria ai sensi della legge sulla trasparenza. Inizia così: “Consapevole delle responsabilità e delle sanzioni penali stabilite dalla legge per le false attestazioni e dichiarazioni mendaciâ€. E si conclude così: “Sul mio onore affermo che la dichiarazione corrisponde al veroâ€. Nel documento, indica come “terreno†la sua villa a Zoagli e non dichiara: una casa a Pontresina, in Svizzera, un affare immobiliare in Romania e la quota di una società in Italia. Può fare il sindaco chi ha mentito ai cittadini?
La soluzione che è stata proposta dal suo schieramento: “controllarloâ€, mettergli attorno qualcuno che garantisca per lui. Siccome non ha una storia politica di sinistra, gli mettiamo accanto Pierfrancesco Majorino, che è tanto di sinistra; siccome con gli appalti fa pasticci e con la trasparenza ha poca dimestichezza, gli affianchiamo Gherardo Colombo, come custode della legalità . E poi ancora Emma Bonino e chi sa chi altri. Mi sembra una logica cosmetica e correttiva che invece di risolvere il problema, lo conferma: se ha bisogno di protesi, forse non è il candidato giusto, no?
Ultimo, definitivo argomento che resta ai suoi sostenitori: gli altri sono peggio. Sarà anche vero, ma a me non basta per farmi “turare il nasoâ€. Alle elezioni non chiedo “il meglioâ€, non pretendo l’ideale. Mi basta il decente, il corretto. Questa volta, a mio avviso, non c’è. Peccato.
Per rimediare ai toni minacciosi e cupi delle sue precedenti esternazioni, Giuseppe Sala manda una letterina al Foglio (21 dicembre 2024) sulla Salva-Milano. Toni pacati, questa volta, grazie ai consulenti che l’hanno assistito.
Le “ristrutturazioni†a Milano sono realizzate “senza volumi diversi da quelli preesistenti, cambia la forma dell’edificio ma la superficie abitabile rimane la stessaâ€. Falso: è stata cambiata la destinazione d’uso (da industriale o artigianale a residenziale) e i volumi sono stati ampliati eccome.
“Il Comune di Milano ha attuato una politica urbanistica diretta a limitare il consumo di suolo non edificato e a promuovere il recupero degli edifici degradati esistentiâ€. Obiettivo fallito: è stato cementificato ogni spazio, si è costruito nei cortili, piccoli laboratori sono stati trasformati in edifici residenziali. Senza consumo di suolo? Falso: Milano ha consumato 93,54 ettari nel 2019-2020 e 19 nel 2023 (dati Ispra).
“Il giudice amministrativo non ha mai (e sottolineo, mai) censurato la prassi interpretativa e applicativa seguita dal Comune di Milanoâ€. Falso: il Tar l’ha censurata nell’agosto 2024 richiamando “il consolidato indirizzo della giustizia amministrativa†(Tar Lombardia 18.5.2020; Consiglio di Stato 22.6.2021).
“Se non lo autorizzassimo, lo sviluppatore comprerebbe un’altra area†e andrebbe a costruire altrove. Strana idea di città , in cui gli operatori possono fare quello che vogliono dove vogliono, senza rispetto per i diritti dei cittadini.
Le “monetizzazioni degli standardâ€. La legge impone che gli operatori cedano al Comune le aree necessarie per realizzare i servizi. Solo in subordine possono “monetizzarleâ€, cioè dare soldi al Comune. Ma a Milano questo avviene sempre, e per di più a prezzi di saldo, un quarto del valore reale delle aree (con conseguente danno erariale).
Le inchieste della Procura hanno provocato una “drastica diminuzione degli introiti per il Comuneâ€, 140 milioni nel 2024. Ma è invece il “rito ambrosiano†ad aver fatto perdere soldi: tra oneri d’urbanizzazione (i più bassi d’Europa e non aggiornati per anni) e monetizzazioni a prezzi di saldo, Milano ha perso almeno 1,5 miliardi.