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TAG: Mirtilo, auriga, Hermes, Kadmylos, Samotracia, Mirsilo, mirto, Candàule, straongolacani, sacerdoti Galli, gioco della scaperda, tiro alla fune
Pelope è il nuovo, ma scuro, Enomao(da alcuni tradotto come "dio
del vino") è il vecchio, ma bianco, molto probabilmente in relazione
alla vite che mostra i suoi frutti alla luce del sole, mentre quelli delle
leguminose sono protette dal baccello.
Se Pelope si può definire il personaggio scuro vincente, d’altro
canto Mirtilo può essere visto, nella lotta per la conquista di Ippodamia,
come il personaggio mezzo scuro o meglio autoctono. In alcune versioni
del mito anche lui era innamorato di Ippodamia, ma non aveva mai osato partecipare
alla
gara. Pelope, straniero, aveva saputo rischiare la vita. Mirtilo, pur provetto
auriga, non era addivenuto al proposito di affrontare Enomao, era un pavido.
Ci si chiede se Enomao aveva
a disposizione un auriga di ricambio dell’abilità di Mirtilo nel
caso quest’ultimo lo avesse
sfidato per conquistare Ippodamia. Ma molto probabilmente coloro che narravano
i miti questa domanda non se la ponevano perché tutto era stato deciso
per via delle connessioni agrarie e/o calendariali dei personaggi.
E probabilmente, non era qualcosa di proponibile, nella versione del mito in
cui Pelope vince solo grazie alla forza dei cavalli donatigli da Poseidone,
versione ripresa da Pindaro e nella quale sono assenti i conduttori(auriga)
dei cavalli.
Probabilmente Mirtilo era l'auriga tipico delle corse coi
carri a Olimpia e in altri agoni. L'auriga doveva avere preferibilmente un
peso leggero e nello stesso tempo essere abbastanza alto da manovrare le
redini del cavallo: e infatti era per lo più un adolescente. E Mirtilo
probabilmente era anche lui un adolescente o poco più.
Era stato deciso che il 13.mo sfidante, o quello che veniva dopo il 13.mo,
vincesse perché per
Enomao era arrivata la sua ora. Dice K.Kerényi (Gli dei e gli eroi della
Grecia, Il Saggiatore 2009, pp. 291) che nelle pitture vascolari antiche si
vedava
Enomao offrire un montone dal mantello bianco a una dea che gradiva i sacrifici
umani, ad Artemide o a una dea a lei molto vicina. E sappiamo che con la religione
olimpica di Zeus il ruolo centrale della Dea ebbe termine.
Ma l'uso dei legumi
e della fava nella roteazione cerealicola poteva essere stato un accorgimento
di una divinità "macanitide". E probabilmente questa divinità
dovrebbe essere stata una sorta di Hermes. E questo Hermes lo troviamo nei
riti misterici di Samotracia in cui Kadmylos è lo sposo della Grande
Madre Axiéros,
dio della fertilità identificato dai Greci con Ermes itifallico. I suoi
simboli sacri sono una testa d'ariete e un bastone, ovvero il kerykeion,
evidente
simbolo fallico che si ritrova su alcune monete. Tra gli dei che presiedevano
ai riti di Samotracia, detti Grandi Dei, non c'è Zeus, ma oltre alla
Grande Madre c'era Ecate, con il nome di Zerynthia, e Afrodite-Zerynthia, poi
due figure
maschili, i Cabiri forse gemelli e due divinità infere simili ad Hades
e Persefone, Axiokersos e Axiokersa.
Notevole il fatto che Kadmylos detenga il bastone e quindi lo lo scettro.
Nell'Iliade di Omero ci sono dei versi dibattuti dagli studiosi. Sono
i versi in cui il poeta descrive il passaggio dello scettro costruito dal
dio fabbro Efesto; lo scettro è donato da Zeus a Hermes e da questi
a Pelope per poi giungere, attraverso Atreo e Tieste, sino ad Agamennone:
Il sire Agamennone
s’alzò tenendo lo scettro (skêptron) che Efesto sudò a
lavorare.
Efesto lo diede al sire (ánakti) Zeus Cronide,
Zeus lo diede al Diaktoros Argeiphontes;
il sire (ánax) Hermes lo diede a Pelope domatore di cavalli,
Pelope lo diede ad Atreo pastore di popoli,
Atreo, morendo, lo lasciò a Tieste, il ricco d’agnelli (polúarni),
Tieste ad Agamennone lo lasciò da portare,
su molte isole e sull’Argolide intera a regnare (anássein)-(Iliade,
II, 100-108).
Su questi versi è sorta una questione tra gli studiosi sul perché il
poeta da l'appellativo di ànax(Signore, re) a Hermes, o meglio
sul perché
lo scoliaste che emendò e trascrisse commentando il testo omerico abbia
inteso Hermes non solo come trasmettitore del potere, ma anche come padre di
Pelope.
Non sono in grado di rispondere alla questione, ma è possibile
che al tempo di Omero Hermes fosse sentito come un dio particolare, era un ànax,
ma sui generis, piuttosto legato alla terra, una sorta di dio infernale, che
raggiunge
obbiettivi
grazie a sotterfugi e stratagemmi, astuzie e bugie, un dio baro, simile all'etnico
trickster, ma anche vicino alle prodezze dei ragazzi spartani che potevano
commettere dei piccoli furti senza essere castigati se fossero stati compiuti
con destrezza e/o astuzia. Può anche
darsi che Omero e i greci al suo tempo abbiano sentito il collegamento tra
Hermes e Pelope, come qualcosa di incerto, di oscuro. In
effetti la successione dello scettro nei versi avviene tra
padre
e figlio
o
tra fratelli, e la tradizione ha dato Tantalo come padre di Pelope ed Hermes
come padre di Mirtilo, che, si può dire, fa parte di quella schiera
di eroi che non rispettano
la timè, l'onore e si distaccano da Zeus.
Secondo una moderna interpretazione, a monte di questa particolare
trasmissione del potere, ci sarebbe
quasi un uso,
nel VI secolo a.C., di
associare i nomi
dei
re di
Lidia al dio
Hermes.
Anche a partire dal VII sec. a.C. potenti
famiglie della Lidia che parlavano la lingua dei lidii, avevano preso il
potere in numerose
città ioniche
dell'Anatolia, condannando le aristocrazie locali, fra cui molti greci alla
perdita dei tradizionali poteri e privilegi. Un poeta giambico, Ipponatte(VI
sec.a.C.), appartenente a un’antica
famiglia aristocratica caduta in disgrazia con l’avvento dei nuovi signori,
fu costretto ad abbandonare Efeso e a riparare a Clazomene (Carmine
Pisano, Antropologia della regalità nella Grecia antica. Hermes, lo
scettro, l’ariete). E proprio di questo poeta conosciamo dei versi
in cui si identifica il dio lidio Candàule con Hermes kynánches, «strangolatore
del cane»:
A gran voce invocò il figlio di Maia, sire di Cillene:
« Hermes strangolacani, meonio Candàule
,
compagno dei ladri, (vieni) qua a tirarmi la scaperda!».
Sono dei versi ironici in cui un ladro chiede l'aiuto di Hermes
strangolacani,
appellativo esteso al meonio(una lingua lidia) Candàule, compagno dei ladri,
per tirare la scaperda. La scaperda è il tiro alla fune, un gioco da
ragazzi: due concorrenti tirano in direzioni opposte, dandosi le spalle, una
fune che
passa attraverso un pertugio di un palo conficcato a terra, vince chi avanzando
fa in modo che il didietro del concorrente tocchi il palo. Si dice che il re
lidio Candàule sia vicino ai cani perché li aveva usati, con successo,
come diversivo a sorpresa in una battaglia contro i Cimmeri( Polieno VII, 2,
1),
mentre Hermes, nel mito in cui ruba le vacche ad Apollo, si dice che abbia
provocato nei cani che facevano la guardia alla stalla un attacco di letargia
e di kynánche(così era chiamata una malattia dei cani
che soffocava loro la gola, probabilmente il cimurro), impedendo loro
di abbaiare. Lo stile dei versi è una parodia omerica della preghiera
di invocazione(Carmine Pisano, ibidem), ma ciò che si richiede è veramente
futile e in un certo senso molto significativo. Se si tiene presente il gioco
della scaperda si comprende
che il dio Hermes non poteva essere un dio semplicemente donatore. Hermes è
il dio che mercanteggia le sue opere con Apollo, dopo il furto, il tipico dio
del do ut des; nel gioco della scaperda se aiuta qualcuno, porta
alla rovina un altro. E forse nei versi di Ipponatte c'è un accenno
a una sessualità particolare,
sia in riferimento al gioco, sia all'epiteto strangolacani, qualora
si collegasse questo termine ai "cani prostituti" biblici. Non è casuale
che nell'antichità a
volte Candàule ssia stato identificato
dai Greci con Hermes o con Eracle, capostipite della dinastia lidia degli
Eraclidi(Hesychius., s.v. Kandaúlas) e Candàule è lidio, quindi
vicino a Tantalo, inoltre sicuramente Eracle(mangione, stupratore, pazzo, amante
insaziabile di donne
e amante anche di efebi) ha qualche tratto del Tantalo frigio, senza
essere diabolico come quest'ultimo.
Mirtilo, l'auriga di Enomao, probabilmente è ritenuto figlio di Hermes,
un dio con aspetti primordiali, avvezzo alle bricconerie e alle furbate dei
ragazzi, perché ha qualche sua caratteristica.
Ma
non ha
le carte in
regola come suo padre, perché presumibilmente è legato alla pianta
del mirto.
Parrebbe Mirtilo un "daimon" delle
nozze come Imene, un dio fanciullo cui spettava la prima notte di nozze e che
doveva
poi morire o scomparire. Ma pare più consona una sua significazione
agraria.
Cioè Mirtilo in connessione con la pianta di mirto con i fiori bianchi
e con i frutti scuri, può essere considerato una spia del tempo di maggese,
quando questo maggese consisteva probabilmente in abbandono pluriennale della
terra per quattro anni circa. La dea delle foreste, Artemide o
la Potnia Theron, ritornavano in possesso delle terre coltivate e non più fertili.
I contadini probabilmente solevano piantare, probabilmente per fare delle siepi
delimitanti il terreno, i semi di mirto. Solo quando questa pianta dava regolarmente
frutti annualmente, solo allora era il caso di rioccupare la terra e ricoltivarla,
oppure, a secondo delle esperienze ricevute, riseminare la pianta e aspettare
altri 4 anni.
Il tempo che impiega la pianta, ottenuta da seme, per dare frutti è di
quattro anni. Probabilmente, quindi, dopo quattro anni
gli antichissimi abitanti autoctoni della Grecia e/o dell'Asia Minore,
nel terzo o secondo millennio a.C. usavano anche questo sistema,
probabilmente
anche
per
recintare
con una
siepe
di mirto
il
terreno
abbandonato.
Poi le siepi di mirto, probabilmente, furono considerate qualcosa da evitare
se usate come contrassegno del tempo di maggese, e per questo connesse a un
labirinto inutile.
La pianta del mirto era quindi non il Daimon delle nozze, ma il Daimon del
periodo di crisi, del periodo di maggese che doveva riportare la terra alla
fertilità. Probabilmente nel ciclo successivo il mirto era estirpato
e riseminato per consentire una nuova datazione del tempo
di maggese. Forse facevano sporadicamente qualche sacrificio umano e sacrificavano
a una divinità infera un giovinetto, il cui sangue avrebbe dovuto veicolare
la fertilità al terreno? Oppure, poiché si parla di aurighi
o giovani che hanno a che fare coi cavalli, può anche darsi che venisse
sacrificato sporadicamente un fantino o un auriga che la sorte avversa avesse
designato
come predestinato
al sacrificio:
sorte avversa consistente nella caduta rovinosa dal cavallo o dal carro. Il
sacrificio del giovane, secondo la mentalità di allora, poteva anche
essere considerato una sorta di atto di pietà nei
confronti del giovane incidentato che cadendo nel corso di una gara o allenamento
ippico si infortunava fino a restare immobilizzato, probabilmente per lesione
della
spina dorsale e/o midollo spinale.
Il sistema del mirto, come siepe-spia, probabilmente fu adottato fino a quando
non venne sostituito da sistemi più produttivi e meno invasivi, quale
quello del maggese verde a rotazione annuale di fava(o altro legume come il
pisello
che
potrebbe
essere collegato oltre che a Pisa, anche a Pelope) - frumento - orzo.
Comunque il mirto entrò nella tradizione come una pianta che portava
bene alle nozze per questa sua funzione di segnalare il tempo di maggese, cioè del
tempo del rinnovamento e i suoi frutti scuri si intonavano a questa significazione.
Per questo suo collegamento alla pianta del mirto, Mirtilo non poteva che essere
rappresentato come un personaggio dal comportamento ambiguo: da un lato desideroso
di unirsi a Ippodamia, dall’altro timido, pavido come un giovinetto.
Addirittura crede alla favola, alla frottola raccontatagli da Pelope (anche
la superiorità di Pelope nella parola, nel convincere gli altri è prova
della sua superiorità), secondo la quale avrebbe avuto in cambio oltre
alla prima notte con Ippodamia, anche la metà del regno.
Pelope, agrariamente parlando, invece è la fava con i suoi fiori bianchi
con venature scure. Come pianta da seme è velocissima perché da
frutti in sei mesi, ma anche in tre mesi ed inoltre è la pianta da seme
che per prima fruttifica a primavera, anche se germoglia per esempio dopo il
seme dell'orzo.
Pelope è il nuovo, ma è scuro per l’evidente legame con
gli inferi o le divinità che avevano attinenza al funerario, cioè Demetra-Persefone,
e al catastrofico e al mostruoso, cioè Poseidone.
La fava ha pure una particolarità che probabilmente gli antichi conoscevano:
cioè è autogama(impollinazione autogama) ed anche entomofila(impollinazione
per mezzo di insetti come le api); quindi è doppia, come Pelope nel
mito quando inganna Mirtilo. Nel caso dovesse essere collegato a un animale,
Mirtilo potrebbe essere collegato ad un'ape re-regina perdente.
Fra l'altro Mirtilo rimosse i chiodi dai mozzi delle ruote del carro di Enomao
sostituendoli con pezzetti di cera: ovvero
con un prodotto dell'alveare. Ovviamente,
in questa eventualità,
Pelope è l'ape re-regina vincente.
Un racconto mitico frigio-lidio si riferisce a un personaggio storico, a un re di nome Candàule, figlio di Mirso. Può anche darsi che questo re sia anche quello ironizzato da Ipponatte ed accostato ad Hermes strangolacani, ma in effetti questo Candàule fu considerato da Erodoto(I,7) il 22° re di Lidia, l'ultimo re dei Lidi, mentre il primo si chiamava pure Candàule, chiamato dai Greci Mirsilo(Mursilos), discendente da Alceo figlio di Eracle. Erodoto riteneva che tra il primo Candàule e l'ultimo sarebbero passati 505 anni. In effetti pare che siano molto meno, dato che l'ultimo Candàule regnò tra il 733 e il 716 a.C.. Da notare come questo re regnò in un territorio vicino alla Frigia da cui proveniva Pelope, prima di venire a Pisa in Elide, e che il suo nome Mirsilo o figlio di Mirso(e in greco il nome del padre diventa quasi un cognome) è quasi identico a quello di Mirtilo.
Il raccondo di Candàule è nel contempo il racconto della sua fine e
ce lo riporta Erodoto(Storie, 8-13). Candàule è innamorato della moglie
e crede che sia la più bella donna che esista,
ma ha la smania di farla vedere nuda ad una sua fidata guardia del corpo, Gige.
In breve egli ritiene che far vedere la sua donna si arresti solo alla sua contemplazione,
come si contempla un'opera d'arte o un bellissimo panorama, senza coinvolgere
altri organi e senza rispettare il pudore della donna. Va a finire che Gige cede
alla smania di Candàule per non contraddire e irritare un capo e d'accordo con
questi vede nuda una notte sua moglie; questa si accorge della presenza dell'uomo,
ma non dice nulla. Però l'indomani mattina chiama nelle sue stanze la
guardia Gige e gli impone l'alternativa, o uccidere Candàule e di prendersi lei
stessa
come moglie e il regno, oppure di suicidarsi per non correre il rischio di diventare
lo zimbello di Candàule. Gige cerca di scansare questa alternativa, ma la moglie
di Candàule è irremovibile. Gige allora, fra l'alternativa di uccidere
o essere ucciso sceglie di sopravvivere e d'accordo con la donna uccide Candàule
nel sonno
la notte successiva. Così successe a Candàule nel regno di Lidia.
Al re Candàule sta dunque approppriato l'altro nome o soprannome, Mirsilo, da
ricondurre al mirto, spia contemplativa del maggese lungo, del periodo di morte
della
terra. Se si osserva bene il triangolo Pelope-Ippodamia-Mirtilo non è molto
distante dal triangolo Gige-moglie di Candàule-Candàule: nel senso che in tutte
e due
i triangoli c'è
un
anteprima
morboso cui fa seguito l'eliminazione di uno dei due maschi.
Da
uno
scolio
alle Rane di
Aristofane
sappiamo
che
per
riavere
la madre,
Dioniso
diede in cambio il mirto, come cosa a lui gradita più di ogni altra. Tale
mito,
da
un
punto
di
vista
agrario-misterico,
potrebbe suggerire che la pianta del mirto, con la morte di Dioniso-leguminosa(fava
o lupino nel sovescio)
non
serviva
più
al
contadino. Seguendo un'altra commedia di Aristofane, Gli Acarnesi, si viene a
conoscere che nelle Falloforie, feste rurali per Dioniso, dietro
l'asta che rappresentava il fallo del dio, una fanciulla canefora portava la
pentola
col
purè di legumi. Da quello che diceva la madre della fanciulla canefora
si arguisce quanto preziosa fosse considerata quella purea che dava ventosità(vedi
il cunto La pulce del Pentamerone del Basile in cui è riportato il brano della
commedia di Aristofane). La commedia di Aristofane fa più che sorridere, e probabilmente,
anche per le sue poliedriche sfacettature, il culto di Doniso era misterico.
Sopra un rilievo da Lanuvio al Museo Capitolino a Roma, databile forse all'età di
Antonino: rappresenta un sacerdote con caratteri e attributi spiccatamente
orientali, sì da far credere che si tratti di un Frigio. È imberbe
e ha pettinatura femminea, coperta dal mantello; porta una corona fogliata
con medaglioni recanti l'effigie di Zeus Idàios, e due Attis ai lati,
orecchini, torques, lunghe vittae, sul seno un pendaglio in forma di naiskos
col busto di Attis. Indossa una tunica a finissime pieghe con lunghe maniche
strette al polso. Nella destra tiene una melagrana e tre ramoscelli di mirto,
nella sinistra una coppa colma di frutta. Appoggiata alla spalla ha la frusta
o flagello con astragali. Nel campo della stele si vedono i crotali,
il tamburello, un flauto diritto ed uno curvo, la cista mistica, alludenti
alle cerimonie in onore della dea. Molto interessanti i tre ramoscelli di mirto.
Probabilmente un'antica pratica agraria dell'estirpazione della pianta di mirto,
una volta raggiunto lo scopo, si prefigura come lo sfondo agrario su cui poi
fu impostato il rituale della mutilazione sessuale dei sacerdoti di Cibele,
chiamati
Galli.
C'è un cunto nel Pentamerone
del Basile(La mortella, I,2) che racconta le vicende
di una donna nata dal grembo della madre come una pianta di mirto. Nel racconto
la pianta si trasforma a un dato segnale in donna. Sette femmine del maleaffare
scoprono
questo segreto e la fanno a pezzi.