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recensioni libri da kataweb.it

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#libri #recensioni

recensioni libri

Ancora un attimo, per favore Un dialogo con una madre scomparsa. Attraverso di lei, attraverso la sua storia, attraverso le sue parole, riscoprire la storia, le parole, gli oggetti degli anni '60 e '70, ma anche riscoprire gli anni '40 e '50. Un lungo girovagare fra i ricordi, scandito per piccoli flash, per illuminazioni. A cercare di afferrare il senso delle nostre vite, e degli addii che siamo costretti a dare. Data articolo: Sat, 11 Dec 2021 22:31:35 +0000

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Viaggio ai confini dell’Europa dove resistono i suoi valori civili Negli ultimi vent’anni Carlo Ossola è ritornato spesso a interrogarsi nei suoi libri sui tratti distintivi della civiltà europea e su come trasmettere alle nuove generazioni la consapevolezza di quei valori irrinunciabili.Ma in un’Europa sempre più dimentica della sua storia, l’impresa non è semplice.La civiltà europea si affidava, fin dal mondo antico, a un processo di trasformazione della natura attraverso la ciceroniana ratio et oratio: un esercizio della ragione e della parola, volta ad educare le persone alla consapevolezza di sé e all’autonomia di giudizio. A dominare oggi è invece una pedagogia di segno contrario che tende a uniformare gli individui.In questo suo libro, Europa ritrovata. Geografie e miti del vecchio continente, Vita e Pensiero).che raccoglie un diario di viaggio attraverso l’Europa e quattro saggi sui suoi miti fondatori, lo studioso ha scelto un approccio diverso. Invece di ricordare una volta di più, sul filo del commento dei testi costitutivi del canone letterario occidentale, le fondamenta greche, latine, giudaiche e cristiane della nostra civiltà, ed evocare le grandi stagioni dell’umanesimo, del barocco, del secolo dei Lumi, Ossola preferisce andarne a cogliere la traccia “sul terrenoâ€, in luoghi lontani, spesso dimenticati e diversi tra loro. Un periplo geografico alla ricerca di quella “cartografia storica†dell’identità europea. Una ricerca che punta non già su un modello, un progetto unico dell’Europa, ma sulla pluralità e sull’intreccio vitale delle sue storie.Non è qui possibile rendere conto delle diciotto “stazioni†di questo pellegrinaggio che dall’incantevole beghinaggio duecentesco e dalla Casa di Erasmo di Anderlecht in Belgio (a due chilomentri da quella Molenbeeck in cui è stata preparata la strage del Bataclan) tocca la Francia, la Germania, l’Europa dell’Est, il Portogallo, la Spagna, la Grecia e infine l’Italia con Otranto, Reggio Calabria e Roma. Luoghi emblematici che portano il segno di una storia europea dove la civiltà non costituisce mai una conquista definitiva e puó rivelarsi tragicamente impotente davanti al risorgere della barbarie. Per questo, forse, il termine “stazioni†non rinvia solo a una sosta di viaggio ma alle 14 tappe della passione di Cristo nella Via Crucis.Limitiamoci a un solo esempio, quello di Leopoli, la splendida città ucraina, già capitale della Galizia sotto l’impero austro ungarico, poi passata sotto il governo polacco, russo e sovietico, per diventare infine ucraina. Ossola ne annuncia la componente ebraica attraverso la lettura delle Botteghe color cannella del galiziano Bruno Schultz, nato e vissuto a Drohobyc, una cittadia a 80 chilometri da Leopoli, e lì fucilato nel 1942 dalla Gestapo.I ricordi di Stefan Zweig si intrecciano a quelli di Joseph Roth per aiutare a cogliere il profumo cosmopolita della città. Mentre è grazie alle poesie di Adam Zagajewski e alla prosa luminosa del suo Tradimento che il mito di Leopoli elaborato dalle élites polacche deportate da Stalin in Slesia acquista un significato universale.Forte della sua erudizione, affidandosi alla suggestione di una scrittura preziosa e allusiva, Ossola costruisce i racconti sul filo dell’analogia. E tra gli atouts del suo libro vi è anche il fare appello alla memoria dei suoi lettori. Le sue belle pagine su Leopoli mi hanno ricordato La strada verso est(Guanda), di Philippe Sand, un avvocato franco-britannico, specializzato nella difesa dei diritti dell’uomo, che ci restituisce un altro intreccio appassionante di destini. Invitato nel 2010 a tenere una conferenza a Leopoli, il giurista vi scopre una serie di coincidenze che riguardano la sua storia privata e la storia tout court.Leopoli è la città dove suo nonno aveva passato l’infanzia e da cui era fuggito per sottrarsi all’Olocausto che ne avrebbe decimato la famiglia. Ma è anche la città dove si erano formati Hersch Lauterpacht e Raphael Lemkin, i due giuristi ebrei che avrebbero partecipato al processo di Norimberga, e a cui dobbiamo i concetti di “crimine contro l’umanità†e di “genocidioâ€, oggi inseparabili dalla nostra coscienza di europei che costituisce il filo conduttore del viaggio di Ossola.© Riproduzione Riservata Data articolo: Wed, 12 Mar 2025 14:07:29 +0000

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Il lato oscuro della nostra Europa L’Europa dell’abbondanza e della libertà era la luce verso la quale si dirigevano i popoli alle sue frontiere esterne.Una luce abbagliante.Ma quando gli occhi si furono abituati e i contorni delle cose divennero di nuovo visibili, ciò che apparve fu un tunnel buio».Chi altri, se non Zygmunt Bauman, ancora a metà degli anni Novanta, poteva avere uno sguardo così penetrante da anticipare quanto sarebbe accaduto parecchio più tardi?Chi altri poteva prevedere, come lui, che l’Europa avrebbe rapidamente visto nei popoli liberati dal regime sovietico la minaccia di una massiccia immigrazione ed eretto «in fretta e furia nuove e più efficaci barriere di confine»? Se c’è qualcosa che caratterizza l’intera opera del grande sociologo – riduttivamente ancorata alla troppo citata metafora della società liquida – è la straordinaria capacità di cogliere il negativo che percorre ogni fase della civilizzazione. Esso ne costituisce insieme il motore e il rischio, la sfida e la potenziale deriva.Di questa capacità diagnostica il libro di Bauman, Il disagio della postmodernità (ora riedito da Laterza), fornisce un’ennesima testimonianza esemplare.Rispetto al celebre scritto di Freud, di cui ricalca il titolo, esso sposta l’angolo visuale dalla modernità alla postmodernità, sporgendosi anche oltre di essa, fino a lambire i nostri giorni. L’analisi di Bauman – centrata sulle figure dello straniero, dell’artista, del vagabondo, del paria, in un dialogo continuo con i grandi scrittori e filosofi contemporanei – ha un andamento sempre comparativo.A confrontarsi sono i caratteri sintomatici della società moderna con quelli della stagione che allo stesso tempo la prolunga e la supera, deformandone i connotati. In entrambi i casi è in atto una sorta di compromesso, sempre rinegoziato, tra vantaggi e rinunce, soddisfazioni e sofferenze.Come ha insegnato Freud, la civiltà moderna è edificata sulla repressione delle pulsioni immediate, soprattutto sessuali e aggressive, necessaria a garantire l’ordine, ma anche la pulizia e la bellezza assenti nelle epoche precedenti. A un certo punto, tuttavia, quegli stessi valori si sono rovesciati in impulsi distruttivi.Così dalla ricerca della purezza a ogni costo si è arrivati alla sindrome razzista che, in particolare col nazismo, ha portato prima ad espellere e poi ad annientare coloro che sembravano contaminare il sangue tedesco. In questo modo si è realizzato il detto freudiano che il cocchio della modernità è guidato da Thanatos.La postmodernità nasce da una diversa attitudine. In essa lo scambio tra libertà individuale e sicurezza non pare più accettabile perché troppo gravoso.Il principio di realtà è scavalcato, nella sensibilità postmoderna, da quello del piacere, che si erge a tribunale supremo dei comportamenti umani. Ogni coazione, ogni sacrificio, appare un’aggressione ingiustificata al libero accesso a un godimento potenzialmente illimitato.Tuttavia anche in questo caso il negativo torna a reclamare la sua parte. Intanto perché, come ben sapeva Simmel, ogni valore appare tale solo se, per ottenerlo, bisogna rinunciare a qualcos’altro. La stella della libertà non splende mai tanto quando si è costretti a sacrificarla sull’altare della sicurezza.Gli uomini godono solo di qualcosa che contrasta con quanto hanno e che proprio per questo non li soddisfa più. Perciò quella felicità che i postmoderni bramano non è che una fuggevole impressione che balena nell’attimo del cambiamento.Non solo, ma l’uomo postmoderno finisce per pagare un prezzo assai alto alla perdita della stabilità moderna. La fluidità della deregulation, rispetto ai solidi canoni della stagione precedente, provoca confusione e ansietà, incertezza e smarrimento.La cultura di Bauman – imparagonabile alla povertà della sociologia quantitativa di matrice anglosassone – gli consente di sperimentare il passaggio di paradigma dal moderno al postmoderno in tutti gli ambiti della vita: dall’arte all’apprendimento, alla medicina, all’informatica, alla religione.Senza però mai smarrire il baricentro del proprio discorso, incentrato sempre sul rapporto tra inclusione ed esclusione, identità ed estraneità. Da questo lato la prospettiva di Bauman si allunga verso le minacce e le sindromi del nostro tempo, di cui il libro indaga la genealogia profonda. Lo "straniero" – nella comoda veste del turista, in quella drammatica del migrante e in quella tragica del rifugiato – è il prodotto artificiale delle società con cui viene a contatto.Da sempre ogni società crea il "proprio" straniero – vale a dire qualcuno che non è collocabile nella propria mappa cognitiva, estetica e morale. Egli, nella sua diversità reale o immaginaria, costituisce una chiazza opaca nel quadro limpido delle culture nazionali. Così nascono i fondamentalismi e gli integralismi, che promettono ai loro convertiti di liberarli da una libertà difficile da sostenere perché confliggente con l’utopia di un ordine definitivo, come l’autore sostiene nel precedente Stranieri alle porte (Laterza).La ferita sempre più profonda inferta al tessuto sociale da un mercato privo della necessarie tutele innesca un circuito perverso in cui un’"economia politica dell’impazienza" finisce per prevalere sull’"economia politica della speranza". Qua il discorso di Bauman entra in contatto diretto con quanto accade oggi in tutta l’Europa – con una proterva punta in Italia.L’utopia moderna e anche postmoderna s’incurva in una fosca "retrotopia" – è il titolo del suo ultimo libro (Laterza 2018) – che fugge dal presente alla ricerca di una presunta età dell’oro.Quando ormai il futuro si è tramutato in incubo, non resta che rifugiarsi nel cono d’ombra di un passato mai esistito come tale. Ma ciò – è l’insegnamento che l’opera e la vita stessa di Bauman ci trasmettono – non arriva mai a chiudere definitivamente la porta alla speranza. A patto che non si rimuova la forza ambivalente di un negativo che non smetteremo mai di fronteggiare.© Riproduzione Riservata Data articolo: Mon, 10 Mar 2025 15:46:23 +0000

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Se l’Europa è moderna un po’ di merito è anche del diabolico Richelieu Nella giovinezza ho detestato a lungo il cardinale Richelieu, uomo malvagio perso nei suoi intrighi, mosso da smisurata ambizione.Colpa di Dumas, ovviamente. I suoi moschettieri pieni di coraggio, profondamente leali al sovrano, dovevano continuamente misurarsi con le trappole tese dal malvagio prelato assetato di potere, dimentico di essere anche un uomo di Chiesa.Perché Dumas ne ha dato un’immagine così negativa?Perché condivideva l’impostazione illuminista che ne faceva una figura quasi demoniaca, mentre si trattava di un uomo molto ambizioso, certamente autore di congiure ma anche vittima dell’odio implacabile dei suoi numerosi nemici.Un ritratto acutissimo ed equilibrato del famoso cardinale lo dette il grande storico Rosario Romeo in un corso universitario tenuto mezzo secolo fa e rimasto finora confinato in alcune dispense; l’editore Donzelli le fa ora uscire in volume con l’attenta e informatissima prefazione e curatela di Guido Pescosolido: Richelieu. alle origini dell’Europa moderna.Ben scelto il sottotitolo, che coglie il punto centrale della ricostruzione: Armand-Jean du Plessis, cardinale e duca di Richelieu, fece ciò che fece, compresi gesti riprovevoli, guidato da un lungimirante disegno politico. Consolidò il potere del sovrano, al quale cercò d’assicurare il monopolio della forza militare dello Stato mettendo sotto controllo sia i litigiosi Grandi di Francia sia le riottose masse popolari.In poche parole, fu tra i principali artefici dell’assolutismo regio, che oggi può sembrare una forma riprovevole di reggimento pubblico, ma che alla metà del Seicento aveva il pregio di mettere fine all’anarchismo feudale, alle contese e ai soprusi della nobiltà sui propri vassalli: una fase cruciale del lento e sanguinoso avvicinamento alla modernità politica.Con il che si torna al sottotitolo e all’interesse di Romeo per il personaggio. Da grande studioso del nostro Risorgimento, Romeo vedeva nella pace di Westfalia (1648) le radici lontane degli equilibri di potere nel continente con i quali Cavour e l’intero movimento risorgimentale si sarebbero trovati a fare difficilissimi conti.Saggio di cordiale lettura la cui conoscenza sicuramente gioverebbe ad alcuni uomini politici che si sbracciano sulla scena contemporanea. Data articolo: Fri, 07 Mar 2025 17:16:59 +0000

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L’AMORE AI TEMPI DEL PLOTO’ Romanzo bifido che nell’alternanza dei capitoli intervalla le vicissitudini della bella Rosalia, donna di altri tempi, a quelle di Francesco, ragazzo che per sbarcare il lunario fa le consegne, ma la sua passione è quella di fare concerti con la sua band. Di capitolo in capitolo i personaggi mostrano i loro caratteri forti e determinati, le loro paure e le loro vite così come sono. Semplici e senza sofisticazioni. Pur essendo personaggi di due epoche diverse, sembra che qualche filo conduttore porti dall’una all’altro e viceversa. L’esperienza di Rosalia è raccolta in un viaggio, al quale si abbandona per fuggire la monotonia della vita di paese e dal quale ritrova le speranze che aveva perso a causa del conflitto mondiale. L’esperienza di Francesco ruota nell’intorno di un concerto che rimarrà impresso nella sua memoria e in quella di chi vi ha assistito. Data articolo: Fri, 14 Jul 2023 17:04:13 +0000

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Donne e uomini destinati a restare nell’ombra Dietro il filtro letterario si può talvolta raccontare una pagina di storia o di attualità meglio che attraverso un saggio divulgativo. Soprattutto se al centro dell’indagine c’è una finzione che è certo tale in rapporto ai fatti e ai protagonisti, ma che ha tutte le caratteristiche della verosimiglianza. In altre parole il racconto, se non è vero, è talmente verosimile, frutto di una ricerca accurata sul campo, da costituire quasi un pezzo di realtà staccato dal quadro generale e inserito in una narrazione volta a coinvolgere il lettore, assorbendone l’attenzione e divertendolo:così che egli possa apprendere ciò che in condizioni normali avrebbe difficoltà a imparare. Qui si parla infatti di una storia di terrorismo e di controspionaggio: qualcosa di molto contiguo alla nostra vita quotidiana, qualcosa che suscita paura per il solo fatto di alludere a eventi incombenti e imprevedibili, su cui le informazioni per il grande pubblico sono ovviamente scarse.Ma Il maestro del silenzio (Rizzoli) si propone proprio di squarciare il velo e di fare il salto dalla fantasia alla concretezza storica. È un romanzo-verità ben riuscito e incalzante, il cui autore è Giulio Massobrio, scrittore prolifico capace di passare con disinvoltura dai thriller alle ricostruzioni storiche. Ha dedicato infatti le sue esplorazioni, tra l’altro, alla battaglia di Marengo, trionfo di Napoleone, e a quella di Custoza — infausta per le vicende italiane — fino alla guerra di distruzione aerea in Italia tra il 1940 e il ’45.Il suo ultimo lavoro narra con cognizione di causa l’attività di un nucleo operativo dei servizi segreti (l’Unità Zero) chiamato a evitare un devastante attentato islamista alla conferenza di Genova sul Mediterraneo. Il lavoro degli uomini e donne del servizio è ricostruito con cura e attenzione umana al profilo dei personaggi. Ed è questo il filo principale del racconto: mostrare la forza e la debolezza dei protagonisti, destinati a operare sempre nell’ombra.La guerra contro i terroristi si combatte sul piano tecnico e informatico, ma forse soprattutto sul piano psicologico. Vince chi è più astuto e più tenace, ben sapendo che si può prevalere in una battaglia ma il conflitto continua.© Riproduzione Riservata Data articolo: Tue, 28 May 2024 13:50:35 +0000

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Scrittori, tornate a sparare sui maestri La storia letteraria è piena di grandi dilettanti, di gente che a un certo punto ha cambiato rotta, che ha deviato e che non ha smesso di deviare, ovvero di leggere e di scrivere da un luogo marginale, impensabile, inattuale.Lo scrittore argentino Ricardo Piglia dirà che l’arbitrarietà è la quintessenza della critica degli scrittori rispetto a quella dei critici che, in fondo, non sanno mai bene cosa dire su un’opera e diventano i doganieri delle teorie in auge nei vari momenti storici. Una carriera di studi letterari, infatti, può provocare «l’illusione che la letteratura sia qualcosa di classificabile e ben ordinato» e non invece la sola università del libero arbitrio in grado di farci conservare negli anni passione, senso del gioco e indipendenza di giudizio, senza i quali uno scrittore non farebbe che seguire le mode e si ridurrebbe a essere un burocrate, un esperto, un professore, un giornalista, un pubblicitario, un operatore culturale… Smetterebbe di avere, in altre parole, fede in ciò che sta per accadere, nel tempo "imminente" che, afferma Piglia, sulla scorta di uno dei suoi maestri, Macedonio Fernández, è il tempo del romanzo. Poi, però, vivrà fino alla fine di letteratura, o meglio di lettura. Del resto, diceva Borges, che cos’è la letteratura se non un modo di leggere? Anche se è vero che non è così semplice, soprattutto per uno scrittore, dire in cosa consiste questo modo. In fondo, uno scrittore è tale solo quando scrive. Nel senso che deve scoprire ogni volta che si mette a scrivere che cos’è quell’oggetto magico e sfuggente chiamato letteratura. Il romanziere che conosce, ancor prima di mettersi a scrivere, la forma del suo romanzo è destinato al successo! Basta pensare al Don Chisciotte… Ovvero al luogo originario dove creazione e teoria, finzione e critica si danno la mano, dove la frontiera tra scrittore e critico non è contemplata, dove non c’è separazione corporativistica tra l’artista e colui che dà forma personale al suo pensiero. Non è forse questo che chiamiamo "romanzo moderno"? Forse per tale ragione Piglia ha insistito per tutta la vita sull’importanza della critica degli scrittori nella storia della letteratura argentina e nella storia mondiale della letteratura: sapeva bene che senza la loro "precisione tecnica", la loro "strategia provocatoria", la loro preoccupazione per il "problema del valore", la tradizione moderna del romanzo si sarebbe perduta, non avrebbe trovato il modo di rigenerarsi. Mi chiedo se una delle ragioni per cui il romanzo contemporaneo abbia così drasticamente ridotto le sue ambizioni non sia dovuta alla mancanza di pensiero critico da parte degli scrittori. Sembrerebbe un paradosso, ma non lo è: oggi il problema non è quello del talento creativo. Di "creatività" ce n’è fin troppa. Quel che manca è la riflessione estetica dentro e fuori dell’opera. Senza di essa la creazione artistica si riduce a ben povera cosa: un buon prodotto, una buona story da far circolare, dove la circolazione vince sulla produzione. Se gli scrittori si mettono dalla parte della circolazione del prodotto, come possono poi pretendere che la loro produzione artistica assuma un valore incalcolabile, cioè quel valore che, al di là di ogni giudizio, per definizione non si può calcolare secondo i criteri della circolazione economica: tempo, quantità, rapidità, costi? Quel che manca terribilmente ormai da diversi decenni è quel che potremmo chiamare "vita letteraria". Ogni autore confeziona con l’aiuto di qualche editor il suo prodotto letterario e cerca di farsi pubblicare. C’est tout… Tuttavia, nei secoli e ancora fino a qualche tempo fa, gli scrittori si preoccupavano in modo del tutto naturale di intervenire nella lotta per il rinnovamento dei classici, per riscoprire opere dimenticate, per tradurre scrittori poco noti o inediti, per polemizzare contro un genere diventato stantio, per promuovere nuove gerarchie letterarie. Gli esempi sono innumerevoli solo nel XX secolo. Prendete questa serie e vedrete spuntare un ramo dell’albero del romanzo: Flaubert che rilegge Rabelais; Kundera che rilegge Flaubert alla luce di Rabelais; Rushdie che rilegge Rabelais alla luce di Kundera. Oppure: Fuentes che rilegge Broch alla luce del primo grande romanziere moderno latinoamericano: Machado De Assis. Gombrowicz che se la prende con Dante, non tanto per sminuire Dante, quanto per colpire le convenzioni del linguaggio poetico del suo tempo e i riti solipsistici, per non dire autistici, della poesia moderna. Il riscatto che Hemingway fa di Mark Twain. La stroncatura di Nabokov dell’opera di Faulkner… Gli scrittori non sono mai stati dei poliziotti, dei "vigilantes". Non concepiscono la letteratura come una proprietà da difendere o su cui esercitare un diritto di prelazione a futura memoria. La letteratura, afferma Piglia, non è uno Stato. Esattamente il contrario: è una società dove non si può imporre nessuna legge «perché in letteratura non c’è legge che possa essere imposta». © Riproduzione Riservata Data articolo: Tue, 11 Jul 2023 18:18:42 +0000

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Milan Kundera. La leggerezza dell’essere diventa una vertigine senza fine Dopo anni di silenzio di silenzio il grande scrittore ceco torna nelle librerie con "La festa dell'insignificanza".Dopo anni di silenzio Milan Kundera torna al romanzo e lo fa regalandoci una piccola e incantevole commedia umana che, come un cerchio, inizia e si conclude nei parigini giardini del Lussemburgo: un luogo gaio, carico di storia patria, e di natura addomesticata, dove la gente, rilassata e tranquilla, ride e passeggia con evidente buonumore. Cosa c'è di meglio di un parco per farci sentire, nella grazia livellatrice dell'esistenza, al riparo dalla storia e dalle sue incombenti tragedie? Qui, proprio all'inizio, Alain - uno dei protagonisti de La festa dell'insignificanza - è affascinato e turbato da certe ragazze che esibiscono l'ombelico. In cosa consiste il suo potere di seduzione, si chiede lo scrittore. Ogni volta che si impone una moda, l'erotismo riscrive la sua vitalità prorompente e tende ad adeguarsi ai nuovi dettami. Ma quel perturbante dettaglio anatomico rinvia, come vedremo, a una riflessione più epocale sul mondo: la sua stessa insignificanza è l'emblema di qualcosa che è accaduto e che coinvolge anche gli altri protagonisti, i cui trascurabili destini personali si intrecciano nel vasto paesaggio della vita.Di loro non si conosce alcun gesto eroico, alcun pensiero alato, alcuna riflessione profonda. Non a caso Alain medita sull'ombelico. E gli altri: Ramon, D'Ardelo, Charles e Caliban come trascorrono le loro esistenze? Nessuno sembra proiettarsi verso le vette del successo. La mediocrità che li avvolge attenua ogni possibile dramma. O ne fa il pretesto di un evento inattendibile. Sicché, quando D'Ardelo scopre di non avere un cancro ma confessa a Ramon, senza una vera ragione, di averlo, è come se quella morte imminente e solo immaginata possa dare spessore e senso alla sua vita.Anche Alain non è estraneo al dramma: c'è nella sua memoria una madre che non ha conosciuto e di cui conserva una sola foto. A suo tempo si è rivelata una donna terribile: per uccidere la creatura che porta in grembo è disposta a lasciarsi affogare nelle acque della Senna. Un ragazzo che osserva la scena, mentre lei sta annegando, si tuffa e con poche bracciate la raggiunge. Prova a salvarla, ma la donna, ostinata nel suo rifiuto, farà morire il giovane al suo posto: una potenziale suicida si trasforma in assassina. E il commento di Kundera riflette, in questo caso, la cristallina e assurda ferocia della vita: «Colui che ha voluto imporle la vita è morto annegato. E colui che lei voleva uccidere nel suo ventre resta vivo. L'idea del suicidio è cancellata per sempre. Nessuna replica. Il ragazzo è morto, il feto è vivo, e lei farà di tutto perché nessuno scopra quel che è accaduto».Che singolare scrutatore di anime è Kundera. Guarda al fondo di una persona che ha fermamente deciso di farla finita e ci fa scoprire come la sua storia vada beffardamente in tutt'altro modo. Lo scrittore non partecipa al dramma. Non prova né pietà né dolore. A che servirebbe, dal momento che è la vita a prendere o a dare ciò che magari neppure ci aspettiamo? Egli descrive i tempi perfetti di un evento come fosse regolato dal battito di un orologio segreto che gli è stato trapiantato al posto del cuore.Eppure, è difficile resistere alla tentazione di pedinare ogni mossa dei nostri personaggi e scoprire non tanto a quale destino sono chiamati, ma a quale comunità appartengono. Sono davvero l'ultima, epigonale, manifestazione di una specie condannata all'insignificanza? Può stupire che il romanzo riveli al suo interno una deliziosa e feroce parodia dello stalinismo. Improvvisamente, le innocue derive contemporanee, le inconsistenti biografie dei nostri fragili protagonisti sembrano risucchiate nel cupo orrore del dispotismo novecentesco. In quell'intollerabile, meschina, ridicola esperienza che lo stesso Kundera, come sappiamo, fu costretto a subire. E della quale egli si vendica raccontando, in rapida e alternata sequenza, le sublimi idiozie di Stalin e dei suoi sottoposti.Sono pagine di sibilante ferocia quelle che lo scrittore praghese ci consegna. Il sovietismo - nella ridicola successione di atti dai quali Charles vuole ricavare uno spettacolo di marionette - si erge qui a categoria dello spirito comico e svela le esilaranti e smarrite figure di Berija, Zdanov, Kaganovic, Krusciov, Breznev, Kalinin. Proprio quest'ultimo è scelto da Stalin per ribattezzare Königsberg, patria di Kant, in Kaliningrad. Un nome così palesemente idiota, ci avverte Kundera, doveva nascondere qualche ragione segreta: «Stalin provava per Kalinin un'eccezionale tenerezza », ma la parola "tenerezza" non si addiceva alla fama del despota crudele. Senonché egli era il solo che potesse permettersi di prendere una decisione assolutamente personale, capricciosa, irragionevole, meravigliosamente bizzarra, superbamente assurda. Non è in fondo anche il più tenue e stravagante degli arbitrii a darci la misura del potere assoluto?Strano romanzo: tocca tutte le corde di una civiltà al tramonto senza prenderle mai troppo seriamente. Crisi, angoscia, disorientamento - stati d'animo che conosciamo bene - lasciano il passo a un buonumore che si fa strada tra le rovine della storia e la polvere che essa ha depositato. Quale enigma si nasconde? «Solo dall'alto dell'infinito buonumore », scrive Kundera, citando Hegel, «puoi osservare sotto di te l'eterna stupidità degli uomini e riderne ».Se il comico è la sola risorsa spirituale che ci resta, allora può anche accadere che Stalin tenga una lezione su Schopenhauer, che Breznev veda un angelo con le ali dispiegate e che l'ombelico diventi davvero il luogo dell'erotismo del nuovo millennio: «come se qualcuno, in quella data simbolica, avesse sollevato una tenda che per secoli ci aveva impedito di vedere l'essenziale: che l'individualità è un'illusione!». Mai Kundera si era spinto così a fondo nelle spire del conformismo, mai si era vista la verità immolata, così ironicamente, sull'altare dell'opinione. In questo romanzo, di flaubertiana seduzione, senza rimproveri né colpe, l'insignificanza è l'essenza stessa della vita. Essa si riproduce nei gesti, nelle scelte, nelle parole, nei drammi delle persone, tocca perfino l'anima delle cose. Cancella il valore degli individui, esalta l'opaca uniformità del loro sentire. E, infine, accoglie tutto questo come fosse il mistero più gioioso. Nel Sipario Kundera aveva scritto: «Solo il romanzo ha saputo scoprire l'immenso e misterioso potere della futilità». E la futilità, con i suoi toni sventati e ilari, è davvero l'altra faccia dell'insignificanza. Stretti nella loro morsa, siamo assaliti dalla vertigine di un bizzarro disorientamento, e assistiamo al repentino venir meno dell'ingrediente principale di ogni tragedia: la serietà. Su questa assenza scivola, senza esitazioni, il romanzo fino a concludersi con la festa nei giardini del Lussemburgo. Qui, dove la Francia coltiva ancora pomposamente il suo passato, si rivedono i protagonisti di questa irrilevante avventura. E noi scopriamo, con incanto, che tutto quello che è accaduto somiglia a una recita. Qualcuno - certamente un maestro - ha tirato i fili della storia. E gli altri hanno obbedito come farebbero delle marionette. Al demiurgo sta a cuore non la vita, ma solo quello che, con la sua sfida artistica, lui della vita è riuscito a creare. © Riproduzione Riservata Data articolo: Tue, 11 Jul 2023 08:01:00 +0000

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Il romanzo infinito di Kundera 'Il sipario' di Milan Kundera (pp. 190, Adelphi, E 15) è un appassionato gesto d'amore nei confronti del romanzo compiuto con la sagacia di chi sa che con lo scrivere qualche romanzo ha guadagnato più di un punto a favore di un genere letterario verso il quale non c'è mai stata, nel corso del secolo ultimo, molta tenerezza.Buttato ai margini della letteratura come spurio prodotto commerciale, dominato da concezioni logorate dall'uso (perché 'fotografare' la realtà a parole quando cinema e fotografia, tecnicamente, la replicano con assai maggiore puntualità?), il romanzo, nonostante tutto ha resistito, magari attorcigliandosi su se stesso come una serpe, non sottraendosi a quel destino che con lo stesso suo nascere lo ha legato a squarciare il velo, o il sipario, delle apparenze, per andare, con la stessa intenzione con la quale Don Chisciotte partì alla volta dei propri viaggi immaginari, a scoprire l''in più' ineffabile di dolore e fantasia, di solitaria voluttà e di sconcertante verità oggettiva che le parole, i racconti, nel puro valore dei loro significati suggeriscono.Kundera, con intelligenza e stile dubitativi, ripercorre le vicende che il romanzo da Cervantes a Gombrowicz ha percorso, cercando di spiegare cosa esso 'solo può dire', fuori dall'essere 'illustrazione di un'epoca storica, descrizione di una società, difesa di una ideologia'.Il libro che ha scritto, un personalissimo romanzo del romanzo, ha tratti incantevoli, ma la sua forza sta dove difende appunto una sostanza o un carattere cui il romanzo non può sottrarsi e che è il segno della sua necessità: mettere il lettore, il suo appassionato seguace, di fronte all'enigma dell'esistenza, gettare un raggio di luce sugli inattesi quesiti che nella vita tendono a restare invisibili, impalpabili. Data articolo: Tue, 11 Jul 2023 04:04:00 +0000

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Attenti a quel libro Giù il cappello, Julian Barnes risponde a Martin Amis: La vedova incinta è stato il romanzo della scorsa stagione e il libro dell'estate, ora Il senso di una fine è il romanzo inglese di questa e sarà il libro dell'estate. Il duello continua - e in autunno uscirà il nuovo romanzo di Paul Torday, il vero outsider della letteratura british: intanto, chi non ha ancora letto Pesca al salmone nello Yemen può fare una strepitosa accoppiata con Il senso di una fine. L'uomo che parla nel romanzo di Barnes - non scrivo "parla" a caso - è un uomo alla fine, un uomo anziano che tira la somma di una vita ormai spesa, all'insegna della convenzione detta prudenza, che lo vede marito separato di una moglie che incontra spesso e lo tratta con affetto, e lontano da una figlia poco disponibile all'esercizio della sensibilità filiale. Il risultato della somma sono alcune immagini "in ordine sparso" e un interrogativo sul valore della memoria, frutto di una amara certezza: "Quel che si finisce per ricordare non sempre corrisponde a ciò di cui siamo stati testimoni" - infatti una delle immagini si riferisce a una scena a cui lui, Tony Webster, non ha assistito, ma che lo ha segnato in modo indelebile. La strategia di Barnes è esplicita e tipica dei virtuosi dell'understatement: rendersi attendibile come narratore con una dichiarazione di modestia, affermando di doversi attenere alle "impressioni" suscitate dai fatti, più che a una vera ricostruzione degli stessi, si tratterà di "ricordi approssimati che il tempo ha deformato in certezze", e infine chiosa: "È il meglio che posso offrire". Il romanzo in due atti è questo: un primo atto al tempo della giovinezza dove i fatti sono esposti come il narratore li ha vissuti e ha finito col ricordarli, un secondo atto oggi, quando una ricomparsa e un diario rimettono in questione il ricordo. I fatti e le figure sono presto detti, nella prima parte: era il tempo decisivo, quando si varca la linea d'ombra e si entra nel mondo della responsabilità, Tony era parte di un terzetto di amici a cui si era aggiunto Adrian, il catalizzatore. Tre ragazzi che professano lo snobistico scetticismo dell'età ("Sì, certo, eravamo presuntuosi, se no a che serve essere giovani?"), agognano alla pratica erotica con fanciulle e si stordiscono di letteratura e astratti furori, più il nuovo arrivo Adrian che subito spicca per lucidità, la distanza dalla urgenza erotica e lo humour nonchalant. Poi entra in campo Veronica Ford, e Julian Barnes coglie il segno. Eccola, la vera protagonista. Entra ed esce quasi subito di scena, ma è sempre presente: quanti scrittori sono capaci di fare di una figura assente la protagonista indiscussa, come Kate Winslet e Cate Blanchett sanno fare in un film? Veronica Ford è una manipolatrice. Immaginate una delle petulanti racchiette austeniane passata per il tempo delle geremiadi della emancipazione, con la laurea in una ...logia a scelta e un bagaglio di frustrazione femminile pari solo alla ipocrisia di una ben regolata inibizione di comodo: ecco Veronica. È lei il deus ex machina di un gran romanzo dell'età dei resoconti, com'è quello di Amis, che Julian Barnes compone modulando il registro del rammarico, tra rancore e rimorso. Data articolo: Wed, 24 May 2023 08:01:00 +0000

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Martin Amis: “Frivola, trash e volgare. Questa è l’Inghilterra” Intervista allo scrittore che presenta il suo nuovo romanzo "Lionel Asbo". Il ritratto di un paese effimero e disperato che però può ancora redimersi e rinascere.C'è un'Inghilterra che i turisti stranieri non vedono. Comincia appena fuori dal luccicante centro di Londra: è un paese di casette fatiscenti e orrendi caseggiati, popolato da uomini dal cranio rasato e dal viso pallido, in giaccone scuro e jeans da quattro soldi, con muscoli vistosi, stomaco dilatato, feroce pit-bull al guinzaglio, e da smunte ragazze-madri, famiglie con dieci figli a carico dello Stato, tre generazioni di perdenti, dai nonni ai nipoti, riuniti sotto lo stesso tetto. Gente che legge avidamente i tabloid scandalistici e sogna di diventare come le celebrità che ne riempiono le pagine: calciatori milionari, starlette in vertiginosi tacchi a spillo, personaggi dei reality show televisivi. In Lionel Asbo, il nuovo romanzo di Martin Amis (esce martedì prossimo per Einaudi, l'autore lo presenta in anteprima nazionale domani a Pordenone-legge), queste due realtà, i miserabili delle periferie e i vip del gossip più trash, si incontrano, anzi si fondono in una cosa sola, quando il protagonista, un delinquentello ignorante e violento, vince alla lotteria 140 milioni di sterline, qualcosa come 170 milioni di euro, diventando lui stesso una celebrità da tabloid.Dopo essersi dedicato a storia ( Koba il terribile) e terrorismo ( Il secondo aereo), dopo un amarcord sui favolosi anni Settanta ( La vedova incinta), uno degli scrittori simbolo della sua generazione torna così a occuparsi del presente con una satira dolceamara della propria società che lo ha fatto paragonare dalla critica inglese a Swift, Dickens e al Burgess di Arancia meccanica. E con un messaggio politico: Asbo, soprannome del protagonista, è l'acronimo di - Anti-Social Behaviour Order", la legge voluta da Tony Blair a fine anni '90 per combattere i comportamenti anti-sociali, la piccola, sporca violenza quotidiana che, appena fuori dal centro di Londra, avvelena l'Inghilterra.Signor Amis, da dove le è venuta l'ispirazione per questa storia?«Ho cominciato a pensarci un paio d'anni fa e scriverla è stato più facile del previsto, come se la covassi dentro di me da molto più tempo. L'ispirazione in effetti l'ho avuta sotto gli occhi per più di un decennio, leggendo la cronaca nera e la cronaca rosa dei nostri giornali».Il sottotitolo del libro è Stato dell'Inghilterra, come se fosse un rapporto sociologico. E la sua Inghilterra non ne esce per niente bene.«Volevo scrivere una metafora dell'Inghilterra d'oggi, concentrato di frivolezze, volgarità, spaventose sperequazioni economiche, dominata dal culto della celebrità effimera, dalla rincorsa di un successo foderato di cattivo gusto. Da un lato una povertà endemica, un circolo vizioso da cui è quasi impossibile uscire, dall'altro una ricchezza pacchiana, esagerata, che finisce per diventare ridicola».È un ritratto feroce del suo paese, ma con un appiglio di speranza: accanto a Lionel, il cattivo idiota, c'è suo nipote Des, un ragazzo povero, buono, intelligente.«Il mio romanzo racconta gli orrori dell'Inghilterra odierna, ma non tutto in essa fa orrore, e attraverso Des ho cercato di esprimere l'affetto che sento per il mio paese, le possibilità che si annidano anche nelle situazioni più disperate».Un giornale di Londra ha paragonato Des a Oliver Twist e lei a Dickens, è un confronto che le sta bene?«Come Oliver Twist, Des riesce a redimersi: non vuole restare nella periferia misera e ignorante, ma la sua aspirazione non è nemmeno la celebrità trash da tabloid. E il grimaldello che gli permette di evadere verso un mondo migliore è la lettura, lo studio, insomma l'istruzione. Quando Blair andò al potere nel '97, disse che il suo programma aveva solo tre parole: "Istruzione, istruzione, istruzione". Continuo a credere che sia la strada giusta per risollevare la nostra società, per renderla più sana e più giusta».E Dickens?«Dickens di solito riserva ai cattivi le sue parti migliori: sono i personaggi che gli riescono meglio. I suoi buoni sono immersi in un sentimentalismo che, con gli occhi di oggi, può suonare esagerato, stucchevole. Anche a me spesso vengono meglio i cattivi dei buoni, ma con Des ho fatto del mio meglio e ne sono soddisfatto, stando bene attento tuttavia a non cadere nel sentimentale. In ogni modo, è vero che questo libro è anche un omaggio a Dickens, dai nomi di certi personaggi ad altri particolari si evince la mia ammirazione per un nostro grande maestro».Pensa che il suo romanzo possa fare per Londra quello che Tom Wolfe ha fatto per New York con Il falò delle vanità?«Penso di sì, sono entrambi la storia di una grande città, dei suoi vizi, delle sue virtù. Solo che Wolfe basa i suoi romanzi su una meticolosa ricerca sul campo, su un realismo da cronista, mentre io non faccio alcuna ricerca, vado a orecchio, invento tutto».In definitiva, è un libro sui "nuovi barbari" che minacciano la nostra civiltà?«I barbari non sono più alla porta, ai confini, sono già entrati, sono tra noi. Beninteso, non sono un nostalgico del passato, non penso che si possa tornare alla vecchia, cara Inghilterra, che peraltro non era certo perfetta come qualcuno vorrebbe farci credere. La nostra civiltà non si difende rimpiangendo il buon tempo antico, bensì costruendo un futuro migliore, andando avanti, non indietro ».E cosa pensa della legge "Asbo"? È servita a fermare i comportamenti anti-sociali?«La tesi di Blair era che la piccola criminalità, la piccola violenza, dagli schiamazzi in strada a chi urina sui muri, dalle risse all'ubriachezza molesta fuori dai pub, sfociassero in una criminalità e una violenza più grandi, più gravi. La legge che puniva tali comportamenti ha avuto un certo effetto nel ridurli. Ma quei comportamenti sono il risultato di vasti problemi sociali: non basta reprimerli, non basta una legge per cambiare un paese».Lionel Asbo è dedicato al suo amico Christopher Hitchens, il grande giorna-lista, saggista, intellettuale scomparso precocemente due anni fa. Quanto le manca?«Immensamente. Penso a lui ogni giorno. Mi consolo riflettendo che ha avuto una vita di un'intensità meravigliosa, più intensa della mia: era un'ispirazione e un modello da vivo, lo rimane anche ora che non c'è più. Ma sono molto triste, la sua morte ha scavato una fossa dentro di me». L'autore sarà domani alle 18 al festival Pordenonelegge dove riceverà il premio FriulAdria© Riproduzione Riservata Data articolo: Wed, 24 May 2023 08:01:00 +0000

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Martin Amis: “Troppi tabù. La mia Shoah non è stata capita” Lo scrittore inglese si difende dalle accuse, dopo che il suo nuovo libro sull'Olocausto è stato rifiutato da Gallimard e Hanser. "L'orrore si può raccontare anche con la satira".New York. Il nuovo romanzo di Martin Amis, intitolatoThe Zone of Interest, è appena uscito negli Stati Uniti e in Inghilterra con critiche eccellenti: il Sunday Times lo ha definito "eccezionalmente coraggioso" e il termine "brillante è stato utilizzato da molti recensori, compreso Richard Ford. Si tratta in effetti di uno dei suoi libri più importanti e commoventi, che tuttavia ha generato anche una reazione inaspettata: Gallimard, storico editore francese dello scrittore, ha rifiutato il manoscritto e lo stesso ha fatto il tedesco Hanser. Il libro, che è stato in seguito acquistato in Francia da Calmann- Levy e che uscirà in Italia nell'autunno del 2015 per Einaudi, sconcerta per l'ambientazione, il punto di vista e il tema: una riflessione sul desiderio amoroso all'interno di un campo di concentramento.I protagonisti sono tre uomini che hanno diverse funzioni nello sterminio degli ebrei: Golo Thomsen, nipote di Martin Bormann; Paul Doll, la cui moglie Hannah è desiderata da Golo, e Szmul, un ebreo costretto a estrarre oro dai denti dei cadaveri delle persone uccise nelle camere a gas. Quest'ultimo è tormentato dai sensi di colpa («siamo gli uomini più tristi mai esistiti ») e racconta, in uno dei passaggi più rivelatori, la storia del mago che costruisce uno specchio che riflette l'anima. Nella scena iniziale, due giovani parlano di lavoro lamentando che il capo abbia una donna molto desiderabile: sembrerebbe un discorso da bar, ma all'improvviso viene citata Ilse Grese, una delle più spietate aguzzine di Auschwitz, e cominciano ad affiorare dettagli sinistri. «Ho voluto dare proprio questo senso di apparente normalità» mi racconta nella sua casa di Brooklyn, «e all'inizio pensavo a una novella, ma poi l'idea di una storia d'amore all'interno di un'ambientazione disumana mi ha portato in direzioni inaspettate».Come interpreta il rifiuto di pubblicare il libro da parte degli editori Gallimard e Hanser?«Mi ha molto sorpreso. Evidentemente ci sono argomenti tabù: una mescolanza di ideologia e il desiderio di evitare problemi. Ovviamente, come accade in questi casi, le motivazioni addotte sono state puramente letterarie, ma leggendo le note ho capito che non hanno capito, o voluto capire il senso del libro».Lei parla di atrocità usando anche momenti di ironia.«Ritengo che sia un errore utilizzare solo la serietà per descrivere l'orrore. Ho usato la satira specie nel modo in cui descrivo il personaggio di Doll: c'è qualcosa di ridicolo nel suo essere pomposo, ma nello stesso tempo è un uomo che commette efferatezze».Si può arrivare a essere comici trattando una tragedia?«La storia dell'arte ci ha insegnato che a volte si è molto più efficaci con la leggerezza. Aggiungo che sono sempre contrario ai limiti e alle censure, e la risposta è nel modo in cui le cose vengono realizzate: un esperimento che ho apprezzato è il fumetto Maus di Art Spiegelman».È la seconda volta che lei affronta il tema dell'Olocausto.«W. G. Sebald arrivava a sostenere che "ogni persona seria non può parlare d'altro". Io credo sinceramente che confrontarsi con l'abominio dell'Olocausto sia fondamentale per comprendere noi stessi. In La freccia del tempo raccontavo la storia partendo dalla fine per vedere come questo spostamento temporale cambiasse anche la morale. In questo caso ho cercato invece un approccio realista, cercando di evitare il genere».C'è spazio per una storia d'amore e desiderio all'interno della più tragica mostruosità della storia? «Certo, e può offrire lo spiraglio in cui si scorge l'umanità, e quindi la redenzione. Si tratta tuttavia di una storia d'amore frustrata, che aiuterà Golo ad avere maggiore coraggio e consapevolezza dell'orrore che sta vivendo».Il romanzo ha alcuni aspetti in comune con Le benevole di Jonathan Littell.«Apprezzo sempre i libri che affrontano grandi temi, e spero che questa sia la direzione della letteratura contemporanea. Nel caso delle Benevole si tratta di un romanzo interessante, specie nelle parti dedicate a Stalingrado e ad Auschwitz. Nel mio libro, invece, uno degli aspetti che mi interessava maggiormente era analizzare gli effetti dell'Olocausto su alcune persone che ne sono responsabili».Il risultato delle loro azioni rimane sterile e tragico.«Purtroppo la storia ci ha insegnato che è andata così, e non apprezzo chi la manipola secondo le proprie esigenze creative. Tuttavia ho cercato di capire l'animo dei personaggi, anche dei più ottusi e perversi: di fronte ai forni crematori, Paul si chiede "Se quello che stiamo facendo è buono, perché ha un odore così tremendo? E perché nel cuore della notte sentiamo l'insaziabile desiderio di ubriacarci brutalmente?"».Pensa che l'Olocausto possa accadere nuovamente?«L'antisemitismo continua a risorgere in Europa e altrove, a volte in maniera camuffata: i segnali sono allarmanti e in alcuni casi gravissimi. L'Olocausto ne è stata la logica e agghiacciante conseguenza».Si è mai chiesto come sia stato possibile?«Me lo chiedo ogni giorno, ma il male si può raccontare più che comprendere. L'umanità continua a perpetrare genocidi perché la malvagità è parte della sua natura: la leggenda dello specchio che mostra l'anima termina con la constatazione che nessuno è in grado di guardarlo per più di un minuto».Gli artisti vedono le tragedie con anticipo.«È un privilegio triste. Oggi viviamo un periodo che nessuno avrebbe mai predetto, segnato dalla disintegrazione degli stati e da pulsioni estremiste: l'estremismo ha sempre rappresentato una costante disastrosa per l'umanità, e non ha mai generato nulla di buono. Il rischio maggiore è rappresentato dal fondamentalismo e il più pericoloso è quello che si sposa con l'antisemitismo».© Riproduzione Riservata Data articolo: Wed, 24 May 2023 08:01:00 +0000

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Primo Levi. Quel capolavoro che ha rischiato di non essere creduto L'edizione in audiolibro di "Se questo è un uomo" con la lettura di Roberto Saviano.Il mio rapporto personale con Se questo è un uomo è un rapporto viscerale. Se questo è un uomo è uno di quei libri da cui, una volta che ci entri dentro, non ne esci più. Non sei più uguale e non è semplicemente perché ti rende più giusto o migliore, ma perché ti cambia. Cambia il tuo modo di sentire, di vedere, ti costringe ad avere un'altra mente e un'altra sensibilità. È un cataclisma che non ha mai smesso di muoversi e attraversarmi.Il mio rapporto con Se questo è un uomo è talmente stretto che mi sembra quasi che Levi sia per me un maestro conosciuto, che mi giudica in maniera severa e sa confortarmi quando subisco ingiustizie.Si tratta di un rapporto carnale. Mi stupisco ogni volta di incontrare qualcuno che non abbia letto il libro. Mi stupisco quando ne racconto un episodio, e chi mi ascolta non ne ha mai sentito parlare: mi sembra incredibile. Le pagine sono divenute carne propria, conosciute riga per riga tanto che mi sembra impossibile che si possa vivere senza aver letto Se questo è un uomo; non una semplice seppur grande testimonianza - ci sono splendidi libri di testimonianze -, ma un capolavoro della letteratura. Un libro sull'uomo, le sue immonde azioni e le sue eroiche resistenze. Levi è un grande scrittore che usa la potenza della parola per raccontare e fare memoria. Ma non gli interessa solo costruire la bella pagina, riesce piuttosto a coniugare gli strumenti dell'uomo colto con la necessità di comunicare quello che è stato.Se questo è un uomo è sicuramente il libro che più di ogni altro ha determinato la mia visione della letteratura. Cito la risposta che Philip Roth dà quando gli si chiede quale sia stato per lui il libro più importante. Roth risponde Primo Levi. Risponde Se questo è un uomo perché, dice, dopo averlo letto non vieni semplicemente a sapere che è esistito l'orrore di Auschwitz, no. Dopo averlo letto non puoi più dire di non esserci stato ad Auschwitz. Non vieni soltanto a conoscenza di quello che è successo, ma sei lì e hai la certezza che la tua vita non possa più andare avanti senza metabolizzare quella esperienza.È la potenza della letteratura: non veicola semplicemente informazioni, benché necessarie e importanti, ma ti dà più vita o ti toglie vita. Se questo è un uomo è il manifesto di questa potenza.E poi c'è la scrittura, e quella di Primo Levi è un modello. È innanzitutto la scrittura di un chimico. Il dettaglio e il meccanismo in cui quel dettaglio è contemplato, non sono per lui una quinta del racconto, ma l'oggetto vero del racconto stesso. Primo Levi non fa un libro sul campo di concentramento ma un libro sull'uomo. Sull'uomo in quelle particolari condizioni, travolto da tutto ciò che accade. Descrive il suo uomo da chimico e da filosofo, ne fa sistema. In questo è sicuramente uno degli scrittori più creativi in assoluto.Può sembrare un'esagerazione o una provocazione, ma mi piace parlare di Primo Levi come creativo, perché arriva a raccontare il lager attraverso diverse strade: da come si conserva una scodella a come si conserva la dignità, da come Dante possa salvarti la vita se ti ricordi i suoi versi al momento giusto, a come il latino possa servire a comunicare con un prete che non parla la tua lingua. La sua versatilità letteraria è quindi infinita. Ci sono diversi registri nelle sue pagine: c'è quello naturalista, quello positivista, persino quello fantastico, quello teologico. Insomma Levi è un mondo e stare in que- sto mondo mi ha fatto sentire a mio agio. La sua scrittura del resto mi ha profondamente influenzato: in molti casi ho cercato di aderire alla sua tecnica narrativa a metà tra il reportage e la scelta di mettere dentro le sue pagine molto di sé. Il suo modo di affrontare il dettaglio e allo stesso tempo la descrizione dei grandi meccanismi che hanno portato quel dettaglio ad accadere, a verificarsi.Primo Levi ha saputo mediare tra una timidezza fuori dal comune e l'ossessione quasi militante per la memoria. In quegli anni, Levi, mettendo a dura prova la sua naturale ritrosia e la diffidenza della società intellettuale, spesso scelse la televisione per condividere queste storie perché l'obiettivo era far conoscere. Io devo molta della mia formazione a Primo Levi, del mio modo di essere scrittore spurio, bastardo, quasi figlio di un dio minore che decide di dare spazio alle telecamere e al web perché l'obiettivo è far conoscere, l'obiettivo è mettere a disposizione del maggior numero di persone possibile ciò che accade in terre dimenticate. Di cui ci si ricorda solo quando muoiono innocenti.E poi c'è l'incubo ricorrente, quello di tornare a casa, di voler raccontare e non essere creduto: il tema dei temi. Anche in questo Levi mi ha molto aiutato, come ti aiuta un terapeuta, un amico, una madre, una persona che ti ama. Un aiuto vero, "tecnico" e carnale insieme. Perché chi scrive di mafia è spesso non creduto e soprattutto è spesso malvisto. Mostra una ferita e, facendolo, immediatamente assurge a un ruolo di coraggio, e chi ha coraggio talvolta è insopportabile alla vista. Allo stesso tempo ti senti smarrito: ti domandi come sia possibile che non vengano viste dinamiche tanto palesi e che raccontare, scegliere di raccontare, di fare bene il proprio lavoro, ti porti a essere bersaglio delle critiche più aspre, spesso scorrette, subdole. Tutto ciò ti toglie punti di riferimento, ti lascia smarrito. Poi comprendi che molti di coloro che ti insultano con la bava alla bocca lo fanno perché hai visibilità e allora pensi a quanto sei stato ingenuo a pensare che gli addetti ai lavori - o come spesso li definisco "ai livori" - non si sarebbero fermati a guardare il dito. Ti scopri assolutamente inadeguato a interpretare il mondo, se pensavi che a interessare potessero essere le tue storie e non chi le racconta. Se davvero pensavi che il tuo racconto avrebbe solo portato ad approfondire dei temi cruciali e non ad attaccare chi ne parla. Ma poi pensi a chi ha vissuto l'inferno in terra e per molto tempo non è stato creduto. Se questo è un uomo non fu immediatamente recepito come un libro di verità. Lo si considerò un po' esagerato, inattuale, in un tempo in cui si stava ricostruendo il paese materialmente ma anche e forse soprattutto moralmente. Ma Se questo è un uomo era avvertito come esagerato e inattuale perché disturbava.Il non essere creduto di cui scrive nelle sue pagine Levi - per esempio nel sogno del ritorno a casa: mentre si sta a tavola e si mangia molto, a un certo punto inizia a raccontare quello che è successo e le persone sedute invece di ascoltare si alzano, motteggiano, scherzano e non ci credono affatto - è il pensiero con cui apre il libro nei versi messi in esergo. Versi che sembrano quasi un'accusa, un monito. Su questo Levi è severissimo: che tu possa essere maledetto, che la tua vita possa andare in malora se non racconti tutto ciò che ho descritto, perché non raccontandolo staresti negando. Questa è l'accusa di un uomo che pone la memoria di ciò che è stato al centro di tutto, come motivo di vita. Il non essere creduti di fronte alla tragedia, l'essere colpevolmente fraintesi, è come essere condannati a morte, è come perdere la propria dignità.Levi insegna ad avere fiducia nella parola e quindi ti insegna a difenderla, a starci dentro e sopportare. Come se la parola stessa, alla fine di tutto, fosse la ricompensa naturale, la cosa di cui più ritenersi soddisfatti. L'unica ricompensa è la parola.Un rapporto scentifico su come si moriva con il gasPubblicata la relazione in cui lo scrittore nel '45 svelò l'orrore di Auschwitzdi Massimo Novelli«Attraverso i documenti fotografici e le oramai numerose relazioni fornite da ex-internati nei diversi Campi di concentramento creati dai tedeschi per l¿annientamento degli Ebrei d'Europa, forse non v¿è più alcuno che ignori ancora che cosa siano stati quei luoghi di sterminio e quali nefandezze vi siano state compiute». Allo scopo «di far meglio conoscere gli orrori», però, «crediamo utile rendere pubblica in Italia una relazione, che abbiamo presentata al Governo dell'U.R.S.S., su richiesta del Comando Russo del Campo di concentramento di Kattowitz per Italiani exprigionieri ». Comincia così il Rapporto sulla organizzazione igienicosanitaria del campo di concentramento per ebrei di Monowitz (Auschwitz- Alta Slesia), che Primo Levi e il medico Leonardo De Benedetti, compagno di prigionia, scrissero dopo la liberazione nei primi mesi del 1945, e pubblicarono il 24 novembre del 1946 sul numero 47 della rivista scientifica torinese Minerva Medica. Ritenuto un avantesto di Se questo è un uomo, il primo libro di Levi uscito nel 1947 da De Silva su interessamento di Franco Antonicelli, il Rapporto venne poi accantonato. Soltanto diversi anni dopo, nel 1991, se ne ritornò a parlare in due convegni, dove Alberto Cavaglion lo presentò al pubblico. Nel 1997 fu inserito da Marco Belpoliti nelle opere di Levi edite da Einaudi.Per iniziativa del Centro internazionale di studi Primo Levi di Torino e della medesima Einaudi, che ne ha stampate 400 copie per sostenere l'ente culturale, ora la relazione sui lager nazisti vede la luce in una versione autonoma. Il Rapporto, pubblicato con una postfazione di Fabio Levi, direttore del centro studi, viene presentato oggi a Torino, alle 17.30, al Museo nazionale del Cinema.Composto in qualche decina di pagine da un "medico-chirurgo" e da un "chimico", la definizione scelta allora da Levi, il testo del 1945 si presenta, sottolinea Fabio Levi, con una «intonazione impersonale e generalizzante ». Ma proprio per i toni scarni, oggettivi, con cui vengono raccontati lo sterminio, le malattie degli internati e il funzionamento delle camere a gas, testimoniato più esplicitamente che in Se questo è un uomo, conserva una grande efficacia. Basta un frammento per rendersene conto: «Entrate tutte le persone nella camera a gas, le porte venivano chiuse (esse erano a tenuta d'aria) e veniva lanciata, attraverso le valvole del soffitto, una preparazione chimica in forma di povere grossolana, di colore grigio-azzurro, contenuta in scatole di latta; queste portavano un'etichetta con la scritta "Zyclon B"».Eppure quando Levi, ritornato a Torino, ne consegnò una copia all'Ufficio storico del Comitato di Liberazione, il Rapporto venne archiviato tra i documenti sulle generiche «atrocità fasciste». Dello sterminio, nota Fabio Levi, non si seppe cogliere al tempo «né la specificità né la reale dimensione».© Riproduzione Riservata Data articolo: Mon, 14 Feb 2022 12:00:00 +0000

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Milena cara Milena cara è una raccolta ragionata e cronologica della corrispondenza di una famiglia di ebrei italiani fra il periodo immediatamente successivo alle leggi razziali emanate dal fascismo, nel 1938, e il 1952. Questa corrispondenza, che si sviluppa più o meno intensamente per oltre un decennio è il frutto di molte separazioni forzate. È un racconto di come due generazioni separate forzosamente cerchino di mantenere vivi i legami famigliari tentando di condividere una quotidianità che sarà perduta per sempre. Data articolo: Mon, 04 Jan 2021 16:57:27 +0000

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Zattere alla deriva Tullio Avoledo, uno dei più abili creatori di mondi della letteratura italiana, abbandona la fantascienza per raccontare la crudeltà del presente e un’Italia che è già dietro l’angolo, dove lo sfruttamento è tollerato e le disuguaglianze sono feroci. Era inevitabile: nei suoi precedenti romanzi ogni slittamento temporale, distopia o ucronia parlava già della realtà sociale, politica ed economica del nostro tempo. Un’attrazione per il reale così forte non poteva che trovare nel noir, genere spesso paragonato al romanzo realista, la sua naturale conseguenza.Solo che Avoledo rimescola così tanto nella grettezza della cronaca e nel fumo opaco del razzismo da firmare un romanzo sconcertante e nerissimo. Di più: Nero come la notte. Il titolo, rubato a un verso di John Milton, spinge il lettore ai confini della provincia italiana, in una terra ancora grassa, ma corrotta dall’avidità e dall’indifferenza, degradata dalla crisi economica, disseminata di fabbriche chiuse e complessi residenziali figli della speculazione edilizia, abitata da ombre che cercano di sopravvivere sotto lo sguardo ostile dei vecchi abitanti.Pista Prima, la città del nordest che i lettori di Avoledo avevano già incontrato nell’Elenco telefonico di Atlantide, chiamata così in omaggio a Orwell (è la regione in cui si trova Londra in 1984), non ha più futuro. Basta allontanarsi dal centro e addentrarsi nella periferia, là dove cemento e campi spogli si contendono lo squallore, tra strade dismesse e discariche abusive, per raggiungere il cuore del nuovo romanzo: un ecomostro chiamato Le Zattere.Quattro edifici occupati da centinaia di immigrati irregolari dalla pelle nera o ambrata. Nessuna strada, fognatura, impianto di depurazione, linea elettrica o telefonica. Un mondo a parte, retto da un Consiglio che garantisce la sicurezza ai suoi abitanti, che impone delle regole senza mai codificarle e senza ammettere pubblicamente la sua esistenza perché in un posto come quello l’autorità non viene delegata e non si fonda sul consenso, ma esiste. Necessariamente esiste. Altrimenti come farebbero a sopravvivere l’uno accanto all’altro in condizioni di estrema precarietà persone fuggite da angoli di mondo dove la miseria e la fame non sono il destino peggiore?In quell’incubo si muove Sergio Stokar, ex poliziotto violento e tossicodipendente, con idee neonaziste e un passato costellato di fallimenti. Quali, esattamente, non è dato saperlo neppure a lui dato che alle Zattere è arrivato privo di coscienza, con il fisico e la memoria a pezzi. Ha una sola certezza: quel posto che fino a qualche anno prima sarebbe stato per lui un terreno di caccia diventa la tana dove nascondersi. Fuori c’è chi lo vuole morto.Per sopravvivere viene incaricato dal Consiglio di mantenere l’ordine: diventa una specie di sceriffo, apprende le regole non scritte della giustizia, i meccanismi di una economia alternativa e un modo di gestire le diversità non solo efficiente, ma persino più dignitoso di quello in vigore nella città di fuori. Non che si redimi: l’odio razziale e le simpatie naziste continuano ad agitarsi nella sua testa confusa, eppure vivere tra i diseredati sembra fargli bene. Come se dall’ombra in cui è sprofondato iniziasse ad affiorare la luce di un uomo a suo modo giusto. Per ritrovare se stesso deve ricominciare dall’unica cosa che sa fare: il detective. Il Consiglio vuole sapere chi ha ucciso, in modo atroce, alcune giovani ragazze delle Zattere e vuole farlo in silenzio per paura che la violenza diventi il pretesto per le ruspe.La ricerca della verità non è però un semplice svelamento dei fatti, un meccanismo che permette di superare la catastrofe con la logica deduttiva, di ripristinare l’ordine dopo un suo momentaneo turbamento. È una questione esistenziale, di fronte a cui passa tutto in secondo piano, anche gli eccessi del protagonista e quelli del suo autore che non risparmia nulla al lettore: risse, prostitute, mafie etniche, terrorismo, prostituzione, follia, sette religiose, snuff movie... Eppure il troppo — come Avoledo ci riesca è un mistero — non è mai troppo.Nel grigiore delle Zattere il bene e il male sfumano in un affresco del presente credibilissimo dove l’unica resistenza possibile è lottare per la dignità degli uomini. Di tutti gli uomini, anche dei diseredati.© Riproduzione Riservata Data articolo: Sun, 23 Feb 2020 17:52:12 +0000

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Intrecci al femminile È un romanzo acuto e magnetico La confessione, dell’inglese Jessie Burton. Una bella prova di scrittura.Burton esordì nel ’ 14 con Il miniaturista, che vinse premi e vendette valanghe di copie, con traduzioni in 38 lingue.Poi pubblicò La musa, che ha molto in comune con La confessione riguardo al tema dei nessi di potere nei rapporti intimi, argomento che evidentemente rappresenta il cuore letterario di quest’abile ricamatrice di storie.L’essenza de La confessione, uscito in Inghilterra l’anno scorso e in arrivo in Italia, vive di due aspetti: l’ottica della maternità come imprimatur totalizzante nelle donne; e il "fingersi- altro" come pratica diffusa, sospinta dall’invenzione di realtà parallele necessarie per districarsi negli ardui ingranaggi relazionali.La struttura a dittico del racconto lo scandisce in due diversi periodi e contesti: la Londra odierna e la viziosa Hollywood anni Ottanta. Gli episodi declinati al presente si concentrano sull’intesa fra la vecchia scrittrice Constance e la sua giovane segretaria Laura, che la sta aiutando a confezionare un nuovo libro. L’anziana non può usare bene le mani, in quanto afflitta da un’osteoartrite. Dopo alcuni successi ormai distanti, ha lasciato da tempo il suo lavoro. Ma ora si rimette in pista grazie al sostegno di Laura, che copia al computer i suoi appunti faticati e sghembi.A questi passaggi s’alternano le sezioni ambientate qualche decennio fa, dove scopriamo Constance ai vertici della gloria e catturata da un legame fusionale con Elise, bellissima e nevrotica ventenne. Visto che un bestseller di Connie diventa un film da girare a Hollywood, le due partner si trasferiscono dall’Europa a Los Angeles immergendosi in un mondo fatuo e irreale, nutrito dall’ipocrisia e dal ricatto. Lì tutto diventa lecito pur di proiettarsi nel firmamento delle stelle, e il tradimento vige come norma capillare.Le amanti precipitano nei conflitti e l’unione si sfalda. Tra scontri furenti e riappacificazioni morbose, Elise resta incinta del marito di un’amica di Connie e genera una bambina, Rose.Quest’evento le causa un tracollo definitivo e la induce a sparire nel nulla abbandonando Rose, la quale verrà cresciuta dal padre. Rose non sa niente sulla sua perduta madre finché il genitore, quando lei è adulta (e vive con un compagno inconsistente), le svela che Elise fu il grande amore di quella certa Constance, tornata a Londra dove si è chiusa in un ritiro silenzioso.Perciò Rose finge di chiamarsi Laura e riesce a farsi assumere dalla romanziera in disarmo, conquistando la sua fiducia. In tal modo le due vicende si agganciano: Laura, cioè Rose, s’è infiltrata nella vita di Connie per carpirle notizie sulle sorti e la fisionomia della propria madre, la cui assenza l’ha devastata.L’architettura binaria della Confessione — coi due plot accostati e riuniti, e un finale sorprendente ma coerente — mette ostinatamente a confronto due donne: da una parte la passionale coppia femminile anni ’80 bisticcia ai bordi di smaglianti piscine hollywoodiane; dall’altra una signora di forte statura intellettuale stringe un vincolo profondo e grato con la ragazza che le funge da amanuense e che però le sta mentendo.In entrambi i casi la differenza d’età, le rispettive lacune negli affetti, gli slittamenti identitari e gli ossessivi giochi di specchi generazionali determinano una tensione calamitante per il lettore e si propongono implicitamente come il riflesso deformato dell’incontro esistenziale madre- figlia. Ogni personaggio cade in spirali d’ansia che tendono a implorare compensazioni.Nella prosa nitida, dal passo crudo e razionale, psicologicamente efferato, senza sconti, prevale l’intreccio dei sentimenti. Un senso dell’attaccamento " al femminile", cioè radicale, tortuoso e spesso masochistico, emerge in primo piano. Gli uomini non ci sono in quest’affresco, se non come sfondo o pretesto.Non si comportano da cattivi, anzi: sono mansueti. Ma si realizzano in una passività che rende protagonistiche le donne, incrollabili e sofferte ricamatrici di destini lungo il mezzo migliaio abbondante di pagine della Confessione. Chi le legge non si rende conto delle dimensioni smodate, perché la trappola è ben congegnata dall’inizio alla fine.© Riproduzione Riservata Data articolo: Sun, 23 Feb 2020 17:29:48 +0000

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Ragazzi perduti Gravesend di William Boyle è un romanzo che nasconde sfaccettature che vanno al di là della trama che, sin dall’incipit, lo inserisce a pieno titolo nel genere noir.Noir nel senso più classico del termine, un noir vecchia scuola che rimanda ai classici, da E morì a occhi aperti di Derek Raymond a Il termine della notte di John D. MacDonald passando per lo straziante umanesimo della cosiddetta Trilogia di Marsiglia del compianto Jean Claude Izzo.Protagonista apparente della vicenda è Conway il cui fratello, Duncan, è stato vittima di quello che oggi chiamiamo " crimine d’odio". Gay, viene attirato in una trappola da un manipolo di balordi locali che lo costringono ad una tragica fuga che termina in una morte che di accidentale ha ben poco. Il capo della gang, tutti italo americani, Ray Boy Calabrese viene arrestato e condannato a sedici anni di prigione. Ma questo a Conway non basta.Perché la morte di Duncan non è stato solo un " rude risveglio" alla realtà di quell’angolo difficile di New York (Gravesend è un lembo di Brooklyn che termina a Brighton Beach) ma l’inizio della fine di tutti quelli che Conway amava.La madre distrutta dall’alcol scompare da un giorno all’altro, il Vecchio — il padre dei due fratelli — diventa l’ombra dell’uomo che era stato. Scaduti i sedici anni di reclusione Conway può mettere in partica quanto sognato: vendetta. E qui arriva, nel primo fulminante capitolo dell’opera, il colpo di genio che rende Gravesend un libro originale e terribile: Conway non ce la fa a uccidere Ray Boy. È Ray Boy Calabrese, devastato dalla prigione e (forse) dai sensi di colpa, a volere che Conway lo uccida. Boyle rovescia il cliché tipico del genere, la vendetta, trasformandolo in altro.Gravesend, quel piccolo spicchio di mondo abitato da italoamericani diventa il teatro di una discesa all’inferno che coinvolge non solo Conway e Ray Boy, ma anche Alessandra ( uno dei personaggi più interessanti e meglio caratterizzati del romanzo) tornata al quartiere natio dopo aver tentato la carriera di attrice a Los Angeles, e Stephanie e Eugene che è la chiave di volta per comprendere quanta profondità drammatica può raggiungere la penna di Boyle.Nipote di Ray Boy, cresciuto ascoltando gangsta- rap, emarginato e in preda ai classici deliri di onnipotenza depressiva dell’adolescenza, racchiude in sé tutte le contraddizioni non solo di un quartiere, ma anche quelle della realtà in cui viviamo. D’altronde, la scuola del noir, quando non devia verso la sua nobilissima istanza politica ( da Manchette, a Izzo come Hammett) diventa specchio crudele in cui riconoscere le debolezze e le storture di ciò che ci rende umani.Come a dire: il noir è il proseguimento con altri mezzi della tragedia. Al di là della vicenda è la penna di Boyle a fare la differenza. Boyle possiede uno stile poetico che riempie di disperazione e umanità anche una semplice chiacchierata fra amiche al bar.Un po’ come l’Hubert Selby Jr dei suoi giorni migliori. Viene in mente, terminata la lettura (strappalacrime, siete avvertiti) una piccola digressione su quella che i sociologi hanno chiamato " la cuspide della Generazione X", quella fetta di popolazione che, dalle nostre parti, Mario Monti definì " generazione perduta" che corrisponde, più o meno, agli odierni quarantenni (Boyle è del 1978). Una generazione che ha scoperto il mondo negli anni Novanta e che, raramente, è stata rappresentata.Non è soltanto una questione di riferimenti culturali ( dai Nirvana ai Sonic Youth) piuttosto è un senso di pessimismo latente che rimanda al famoso monologo di Tyler Durden in Fight Club «Siamo i figli di mezzo della storia, non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo la Grande Guerra né la Grande Depressione. La nostra grande guerra è quella spirituale, la nostra grande depressione è la nostra vita».Da questo punto di vista Gravesend arriva dritto al punto. Il romanzo di Boyle mette in scena il malessere e la furia che non trova alcuno sbocco, di uno scampolo di generazione scartata dalla Storia, una generazione in balia di regole dai piedi d’argilla, schiacciata da un passato che non è mai morto e da un futuro che li ha azzoppati ( con l’ 11/ 9 prima e con la crisi del 2008, dopo — in Italia potremmo aggiungere la pallottola fatale del 20 luglio 2001) prima ancora che potesse farsi avanti.Una " generazione perduta" a cui non è stato neppure offerto un finto banchetto alla Fitzgerald. Una generazione che nasconde dietro al nichilismo, lo stordimento e le lacrime di chi ha perso senza neppure sapere il perché.© Riproduzione Riservata Data articolo: Thu, 23 Jan 2020 18:00:46 +0000

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Un mistero chiamato Jane Austen Aproposito della zia scrittrice Jane Austen, è il nipote Edward Austen Leigh, negli anni ’ 70 dell’Ottocento, a informarci che « la sua vita fu singolarmente priva di eventi » . Anzi, più precisamente, parla di un’esistenza "deserta" di accadimenti: rare le novità, nessuna crisi, semmai una ripetitiva e monotona teoria di matrimoni ( di fratelli e cugine e nipoti) e nascite e morti. E le feste comandate a Natale, e le vacanze e gli anniversari e dolci e frittelle, e qualche viaggio a Londra andata e ritorno. O a Bath andata e ritorno.Il nipote è onesto, come tutti gli Austen, e apprestandosi a scrivere A Memoir in ricordo della zia confessa candido di sentirsi a disagio. È scarsissimo il materiale con cui tramare la tela del racconto. Ha però un ricordo chiaro e distinto della persona di lei e del suo carattere, e siccome è questo alla fine, secondo lui, il fine di ogni biografia, ovvero la trasmissione della personalità del soggetto biografato, si mette al lavoro.Altruisticamente, perché di una cosa è certo: in molti hanno interesse a sapere com’era davvero zia Jane, come passava le sue giornate quella donna appartata dalla fertile immaginazione, che s’era inventata personaggi come i Dashwood, i Bennet, i Bertram, con una tale naturalezza, che ai suoi lettori pareva di averli conosciuti intimamente, tanto simili erano ai loro amici, ai loro vicini di casa. Quel memoir sarà essenziale nel creare il mito della "zia Jane", che è vecchia e cara, e insieme un genio.A conferma nel 1913 apparirà Jane Austen, her life and letters di William e R. A. Austen- Leigh. Sì che agli albori del nuovo secolo il padre di Virginia Woolf, Leslie Stephen, potrà testimoniare dell’esistenza di una speciale forma di idolatria in Europa — " Austenolatry", la chiama. Un fanatismo devoto che a tutt’oggi non si è affatto spento. Specie in England. Anche se in verità ne siamo affetti anche noi, tutt’oggi, dalle nostre parti.A soddisfare tale appetito ecco Jane Austen. La Vita di Claire Tomalin; uscito in inglese nel 1997, ora appare in italiano presso la Nuova Editrice Berti per la traduzione ottima di Cristina Colli e Cecilia Mutti, e per la cura garbata e informata di Massimo Scotti.Sono passati gli anni, ma la difficoltà di ricostruire la vita di Jane Austen rimane insuperata, dichiara Claire Tomalin, che pure alla scrittura biografica si dedica da sempre — famose le sue biografie di Mary Wollstonecraft, di Dickens, di Katherine Mansfield, Thomas Hardy e Samuel Pepys. Sì, confessa Tomalin, di primo acchito: non è facile scrivere di Jane Austen, perché davvero non le è accaduto niente. O meglio, tutto le accade quando scrive.È così segreta, Jane, è così raccolta in se stessa, è così tutta versata nei suoi personaggi. Non ha lasciato altro che quelli, i romanzi; nessuna nota autobiografica; anche l’avesse fatto, la sorella Cassandra, appena Jane spira, come una furia distrugge tutto il materiale privato, compresa la corrispondenza di Jane in suo possesso. E dunque, dobbiamo rassegnarci? E conoscere la vita di Jane lì dove si versa? E cioè, nei suoi romanzi?Claire Tomalin no, non si arrende e per pagine e pagine appassionate ci conduce in ipotetiche ricostruzioni, di fronte alle quali viene spontaneo chiedersi: ma come fa a sapere che Jane guardò in quel certo modo Thomas Langlois Lefroy al ballo? E tutti quei dubitativi: «dev’esserci stato qualcosa di più», «deve aver pensato», «deve aver sentito » , su quale "dover essere" si basano? Di quali pensieri e sentimenti si parla? Di quelli che secondo Tomalin dovrebbe sentire e pensare Jane, se Jane fosse una normale abitante della sua epoca? Ma non abbiamo già detto che Jane non è affatto "normale"?Nel modo di scrivere biografie proprio di Tomalin, il biografo si fa insieme storico d’epoca, sociologo e psicologo del costume, e ci sommerge di un mare di informazioni — ad esempio, a proposito del ciclo mestruale ci informa che allora arrivava tardi, e viste le condizioni igieniche, inferisce che fosse una «esperienza sgradevole e difficile» e le ragazze erano «vulnerabili e a disagio» … E dunque? Rivela questo fatto qualcosa del carattere di Jane? Ci serve a conoscerla più da vicino? E qual è la distanza tra gossip e privacy e acquisizione di dati essenziali alla conoscenza di una persona?Ce lo chiediamo e continuiamo a leggere, attratti in una caccia al tesoro dall’esito finale scontato, perché se sappiamo che non è così che si trova il tesoro, è anche vero — chi può negarlo? — che di una scrittice che amiamo vogliamo sapere tutto, anche i dettagli all’apparenza banali. Senza dimenticare, tuttavia, che tra noi e la cara, sublime Jane, c’è un terzo, una terza persona, un medium che seleziona e interpreta. E mentre ci avvicina a lei, si mette per l’appunto in mezzo.© Riproduzione Riservata Data articolo: Thu, 23 Jan 2020 17:05:39 +0000

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Julie che suonava musica sbagliata È stato in una delle lunghe chiacchierate via email che l’ottimo traduttore Nicola Manuppelli intratteneva con Sherri, la moglie di quel fuoco d’artificio di affreschi americani che è Don Robertson, è stato allora che è saltata fuori l’esistenza di un romanzo inedito, Julie. «Mandamelo subito allora» le deve aver detto, certo che la sua casa editrice Nutrimenti l’avrebbe seguito nell’impresa di pubblicare tutta l’opera larger than life del nostro autore.E Don, la cui lettura, lo diciamo ancora una volta perché ci convince molto, secondo Stephen King è paragonabile a un incontro di boxe col giovane Cassius Clay, come sempre non l’ha deluso.Lo abbiamo già conosciuto con L’uomo autentico, L’ultima stagione, e soprattutto con l’infinito Paradise Falls, ne siamo sempre usciti con una visione dell’umanità quasi stravolta, il suo condurci tra gli alti e i bassi, le risate e i pianti, ci ha quasi confuso e comunque trasportato incandescente con sé; la sua capacità inventiva ci ha travolto, con quei personaggi così bislacchi e inattesi che fanno da contorno ai protagonisti, con quei silenzi immusoniti o placidi che sappiamo bene quanto esistano nella realtà ma che pochi autori riescono a rendere, con quelle ubriacature senza fine che sembrano segnare le giornate di metà America, con quel tono così totalmente colloquiale, la prosa immediata e senza fronzoli eppure capace di toccarci al cuore.Quei personaggi ordinari che di ordinario non hanno nulla. Quell’andare avanti e indietro tra i ricordi senza alcun ordine né nesso, come facciamo tutti. Perché è così, Don Robertson dipinge il mondo, senza infingimenti, attraverso gli uomini e le vite comuni. Ma proprio perché le sue indagini emotive sono varie e variopinte, non tutti i suoi lavori possono essere degli affreschi corali e epocali come Paradise Falls, ecco Julie, romanzo intimo, a una dimensione, e per di più femminile.Come raccontarlo, come farlo capire. Non è semplice. Julie è una bambina ferita dall’alcolismo e dalla disattenzione dei suoi, una mamma urlante e sempre scontenta, un padre più solido ma chiaramente dedito a whisky e birra in maniera eccessiva. Mentre lei fa i suoi ragionamentini in prima persona da bambina, i due si lasciano, chiaro.È il 1939. E il babbo brillerà per la sua assenza. Unica compagnia per Julie, una papera che muore presto, poi una papera di pezza, infine una lucertola poco discorsiva e un’amica immaginaria, nera, perché così può essere comandata meglio (ah, dimenticavamo, Robertson è il massimo della politically uncorrectness, sempre). Menomale che un vicino di casa del nuovo appartamento con la mamma a Cleveland, decide di regalare a Julie il suo pianoforte, perché è lì che Julie bambina scopre un talento che le farà compagnia per buona parte della vita, anche se poi la sua scarsa determinazione in tutto le farà abbandonare per la strada questo dono meraviglioso.Comunque mentre la madre la sommerge di compagnie maschili, Julie cresce. Lontano, siamo all’inizio degli anni 40, una guerra che sembra irreale. Quel che conta per Julie sono poche cose, una visita del padre, le lezioni di piano, una luce estiva che sembra polvere scagliata su ogni oggetto, una mamma ubriaca da cui difendersi. E finalmente, lentamente, il primo amore. Prima sospirato, presto, molto presto, baciato, Morris Bird III (un discendente del Morris Bird di Paradise Falls!). Che dolce amore, a Julie importa di poco altro, e la mamma non c’è mai, a casa si può flirtare come si vuole.La scoperta di sé, dei propri desideri inizia adesso e non finirà mai; Julie, per quanto amata, adorata, dai suoi uomini, ferita più tardi dalla morte e dal dolore, non saprà mai aver davvero cura di sé e di chi gli vuol bene, avrà una sorta di cupio dissolvi nella seduzione di decine d’uomini belli e brutti, assurdi, nel tradimento, butterà via tutto in una famelicità malata, ma al tempo stesso allegra, inconsapevole, confusionaria.La sofferenza non mancherà, e quando mai manca nei libri di Don Robertson: forse proprio perché la sua vita è stata colpita da malattie continue che se lo portarono via a 70 anni, il 21 marzo 1999, non può fare a meno di cospargerne i suoi romanzi. È così, non sappiamo se ridere delle mille bestialità insensate che Julie commette di pagina in pagina o piangere, per i suoi mali, e per i mali dell’umanità. Ma non è questo che rende godibile un racconto?© Riproduzione Riservata  Data articolo: Thu, 12 Dec 2019 17:35:07 +0000

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I guardiani della Regina Londra. Si dice che gli inglesi amino più gli animali degli esseri umani. Recentemente ho trovato uno scoiattolino appena nato nel giardino di casa: doveva essere caduto da un albero, infatti zoppicava leggermente da una zampetta. Nel giro di un’ora sono arrivati per prelevarlo un soccorritore pubblico, la Royal Society for the Prevention of Cruelty to Animals, e uno privato, il veterinario del quartiere, ma nel frattempo si era radunata davanti al cancello di casa una piccola folla di passanti, tutti pronti a interrompere le proprie faccende per occuparsi del piccolo roditore.Se i senzatetto che popolano la strada all’angolo ricevessero la stessa attenzione, sospetto che il loro problema sarebbe rapidamente risolto. L’esempio più noto di amore per gli animali, in Inghilterra, viene dall’alto: la regina Elisabetta sembra riservare più affetto ai suoi cagnolini corgies e ai cavalli, quelli che continua a montare a 93 anni d’età (al passo, naturalmente, ci mancherebbe che andasse al galoppo) e quelli della sua scuderia che corrono negli ippodromi, che a figli, nipoti e pronipoti.Ma se è comprensibile che qualcuno si affezioni a cani e cavalli, per non parlare degli scoiattoli, è più difficile immaginare sentimenti analoghi verso i corvi. Forse per il nero lucente delle sue penne, colore associato con la notte e con la morte, il più grande volatile del genere dei passeriformi viene spesso considerato portatore di malasorte.«Uccello del malaugurio» lo definì lo scrittore Edgar Allan Poe. Una cattiva fama derivante anche dalla sua predisposizione a nutrirsi di carogne: «Finire in pasto ai corvi» è un’espressione proverbiale per indicare la fine dell’esistenza, particolarmente se in maniera incivile, sofferta, magari senza nemmeno sepoltura.Eppure c’è un luogo in cui i corvi vengono alloggiati, custoditi e venerati come protettori di una civiltà millenaria: la Tower of London, il magnifico castello medievale sulle rive del Tamigi costruito da Guglielmo il Conquistatore nel 1078, utilizzato per secoli come residenza reale, ma servito anche per altri scopi, da arsenale a forziere dei gioielli della Corona, da sede di torture ed esecuzioni pubbliche fino a prigione, in cui fu rinchiusa fra gli altri Anna Bolena, seconda delle sei mogli di Enrico VIII.Oggi è una delle attrazioni più visitate della Gran Bretagna. La Torre di Londra ha svolto un ruolo di primo piano nella storia inglese. E questo conduce all’importante ruolo svolto da sette dei suoi inquilini: i corvi, per l’appunto.Narra un’antica leggenda che, se i corvi dovessero andarsene, la Torre cadrebbe in rovina e con essa anche la monarchia britannica. Una superstizione, naturalmente, ma che Sua Maestà, per non rischiare, prende piuttosto sul serio. A conferma che questi animali possono essere portatori di gravi sfortune, in un certo senso; ma anche che, in senso opposto, tenerli buoni, soddisfatti e ben pasciuti funziona come antidoto contro il malocchio.Esiste perciò una figura, detta Ravenmaster (alla lettera, il maestro dei corvi), incaricata di assicurarsi che il funesto evento non si verifichi mai. A ricoprire l’importante incarico è attualmente Christopher Skaife, un ex-militare di carriera che, dopo ventiquattro anni passati nell’Esercito, ha deciso di dedicare la sua vita ai corvi. Adesso Skaife, giunto vicino al termine del suo mandato, ha scritto un libro per raccontare il suo decisamente singolare mestiere e tutto quello che ha imparato facendolo.In Il signore dei corvi (pubblicato in Italia da Guanda), il Ravenmaster descrive l’intelligenza formidabile, i dispetti e il senso dell’umorismo, tipicamente inglese ma talvolta un po’ maligno, di questi uccelli, che non gli risparmiano scherzi e preoccupazioni, inseguimenti e arrampicate, più qualche buffo incidente.«Ore 5,30, autunno» , comincia il suo diario. «L’alba si affaccia su Londra. Sono già in piedi prima che suoni la sveglia. Mi vesto al buio ed esco. Non c’è tempo nemmeno per una tazza di tè. Ho sempre l’assillo che di notte qualcosa sia andato storto. E se qualcosa va storto è molto, ma molto grave».Con ironia e passione, l’autore riesce a rendere straordinariamente interessante, e perfino simpatico, un animale che pochi metterebbero in testa alle proprie predilezioni faunistiche, riabilitandone la sinistra reputazione. «Imparando a conoscere i corvi», afferma Skaife, « ho scoperto tanto di cosa significa essere umani: ho imparato ad ascoltare, a osservare e a stare zitto. I corvi sono stati i miei maestri e io il loro allievo».Fare il Ravenmaster, insomma, lo ha reso un uomo migliore e più consapevole. Una lezione da meditare anche per noi lettori, la prossima volta che andremo a visitare la Torre di Londra e i suoi sette specialissimi pennuti. © Riproduzione Riservata Data articolo: Thu, 12 Dec 2019 17:26:14 +0000

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