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Recensione da ilsole24ore.com: Nato nel 1918, orfano di padre, laureato in matematica, a lungo un marxista e un leninista convinto (il miscuglio di «un marxista e di un democratico», dirà di sé più tardi), Aleksandr Solženicyn era un capitano dell'Armata Rossa quando la polizia sovietica lo arrestò nel febbraio 1945. A guerra non ancora finita. Lo acciuffarono mentre era accucciato nel fango e nella neve bagnata di una postazione da cui stavano sparando contro i tedeschi. Gli «Organi» avevano intercettato le lettere che l'ufficiale ventiseienne si scambiava con un amico e dove non erano dette cose gentili a proposito del «Capobanda», ossia di Stalin. Di più, i due amici si proponevano di dare vita a «un'organizzazione» che riunisse quanti pensavano tutto il male possibile del comunismo reale nel loro Paese. A norma dell'articolo 58 del codice penale sovietico quella non era una colpa, era un crimine. Dieci anni di lager li prendevi per molto meno. Durante gli anni Trenta, un idraulico in camera sua spegneva la radio al momento in cui l'annunciatore leggeva con voce enfatica le lettere adoranti inviate a Stalin. Venne denunciato da un vicino di casa e beccò otto anni. Il più delle volte erano condanne comminate da un Tribunale amministrativo che non abbisognava né di udienze né di testimoni né della presenza fisica dell'imputato, sentenze comunque inappellabili.
Alle spalle del giudice istruttore che cominciò a interrogare Solženicyn, stava un ritratto in figura intera di Stalin alto quattro metri. Tra giudice e imputato non c'era molto da battere e controbattere, c'era solo da firmare carte in cui l'accusato riconosceva di essere un poco di buono. Da ufficiale dell'Armata Rossa Solženicyn era divenuto uno Zek, ossia «un detenuto» e tale rimarrà per undici anni, fino alla riabilitazione del 1957. Undici anni trascorsi prima nel lager e poi al confino, celle dov'era rinchiuso ora con un altro detenuto ora con altri 150. Nasce da questa esperienza uno scrittore che è tra i simboli irrinunciabili del Novecento.
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