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#news #antidiplomatico
di Paolo Desogus*
*Post Facebook del 30 marzo 2025
Lo Stato maggiore iraniano in una dichiarazione rilasciata domenica in occasione del 46° anniversario della fondazione della Repubblica islamica, ha ribadito che "Qualsiasi minaccia, aggressione, bellicismo o invasione dell'integrità territoriale dell'Iran islamico verrà affrontata con una risposta severa e forte e un approccio aggressivo."
Le Forze Armate hanno, dunque, confermato il loro impegno a vigilare su tutti i movimenti e i complotti del nemico e la loro disponibilità a fare sacrifici per difendere il Paese.
La dichiarazione ricorda che la Repubblica islamica ha raggiunto un livello di deterrenza militare difensiva dinamica e sostenibile e non esiterà mai a perseguire i suoi sacri ideali e obiettivi di fronte a richieste eccessive, minacce o dichiarazioni assurde da parte del sistema egemonico.
Trump minaccia l'Iran di bombardare se non si raggiunge un accordo
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, proprio domenica, aveva minacciato che avrebbe potuto ordinare attacchi militari contro l'Iran se con Teheran non fosse riuscito a raggiungere un accordo con Washington sul suo programma nucleare.
"Se non si raggiunge un accordo, ci saranno i bombardamenti", ha avvertito Trump in un'intervista alla NBC News. Ha tuttavia aggiunto che potrebbe imporre tariffe secondarie all'Iran se non si raggiungesse un accordo, come ha fatto durante il suo primo mandato.
I funzionari iraniani avevano già dichiarato che la politica dell'Iran resta quella di astenersi dal tenere negoziati diretti in condizioni di cosiddetta massima pressione e di minacce militari statunitensi, ma i negoziati indiretti, come quelli avvenuti in passato, potrebbero continuare.
“Inseguiremo gli aggressori nel Golfo del Messico”
In risposta alle ripetute minacce di Trump, il comandante delle forze navali del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) dell'Iran, il contrammiraglio Alireza Tangsiri, ha sottolineato sabato che le capacità militari iraniane non devono essere incluse in nessun negoziato con gli Stati Uniti, altrimenti non avrebbe senso negoziare con Washington.
"Nessuno può batterci e scappare, anche se dovessimo inseguirli fino al Golfo del Messico... e lo faremo", ha minacciato.
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LA RESISTENZA DEL POPOLO PALESTINESE E' UNO DEGLI ULTIMI BARLUMI DI LUCE PER L'UMANITA': AIUTA A FARLA RISPLENDERE SEMPRE PIU' FORTE!
Data articolo: Mon, 31 Mar 2025 07:30:00 GMT
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu continua a insistere sul fatto che Israele realizzerà i piani di pulizia etnica di Trump per Gaza, affermando domenica quanto segue sulla “fase finale” del suo programma:
“Hamas deporrà le armi. Ai suoi leader sarà permesso di andarsene. Ci occuperemo della sicurezza generale nella Striscia di Gaza e permetteremo la realizzazione del piano Trump per la migrazione volontaria. Questo è il piano. Non lo nascondiamo e siamo pronti a discuterne in qualsiasi momento”.
Il suggerimento di Netanyahu che il piano di Trump per la rimozione dei palestinesi da Gaza sarebbe “volontario” è fuorviante in due modi distinti.
In primo luogo, è insensato rendere deliberatamente e sistematicamente inabitabile un luogo e poi affermare che chiunque lasci quel posto se ne andrà volontariamente. Gli esperti israeliani hanno portato avanti questa narrazione fin dai primi giorni dell'assalto, ed è palesemente falsa: dire alle persone che possono andarsene o morire di fame è esattamente come costringerle ad andarsene sotto la minaccia delle armi.
In secondo luogo, il piano di Trump per la pulizia etnica di Gaza non è “volontario”. Trump ha esplicitamente detto che “tutti” i palestinesi saranno rimossi dall'enclave e non potranno tornare, il che ovviamente significa necessariamente che chi vuole restare non potrà farlo. Netanyahu dice di voler realizzare il piano di Trump, e il piano di Trump è una pulizia etnica forzata.
They’re openly telling you what they’re planning and Western media still manages to ignore it. pic.twitter.com/VKYAw3myXq
— Assal Rad (@AssalRad) March 30, 2025
Un membro della Knesset del partito Likud di Netanyahu, Amit Halevi, ha appena commentato alla radio israeliana che il piano è “occupare il territorio per ripulirlo dal nemico”, aggiungendo che Israele ha bisogno di “tornare a Gaza in modo permanente e controllare questo spazio, perché è parte della nostra patria”.
Insomma, quanto devono essere più espliciti?
Quando gli apologeti di Israele rispondono ai canti di “Gaza libera” con “Gaza libera da Hamas”, quello che intendono veramente è “Gaza libera da tutti i palestinesi”. Il programma che stanno sostenendo non ha nulla a che fare con Hamas: si tratta di epurare un territorio palestinese dai palestinesi e sostituirli con ebrei israeliani. È l'ennesimo accaparramento di terra da parte di Israele e l'ennesimo tentativo di eliminare i palestinesi dalla loro patria storica.
Se si trattasse davvero di liberare i palestinesi da Hamas, allora perché Israele sta sfruttando questo momento politico per portare avanti programmi di pulizia etnica in Cisgiordania, dove Hamas non governa? Il ministro della Difesa Israel Katz ha dichiarato a proposito della Cisgiordania occupata che “dobbiamo affrontare la minaccia proprio come affrontiamo l'infrastruttura terroristica a Gaza”, e il manuale di Gaza viene utilizzato sempre più spesso. Decine di migliaia di persone sono state sfollate mentre il campo profughi di Jenin è stato reso inabitabile da un'aggressiva campagna di bombardamenti israeliani, con centinaia di case attivamente distrutte - non per combattere Hamas, ma per sbarazzarsi dei palestinesi. Perché questo è l'unico scopo.
After years of ignoring Palestine protests, the BBC has finally found one it wants to report on. pic.twitter.com/RE1vxfQTjK
— Alan MacLeod (@AlanRMacLeod) March 25, 2025
La stampa occidentale si è occupata ossessivamente del fatto che alcuni manifestanti a Gaza hanno espresso il loro malcontento nei confronti di Hamas, dopo che quegli stessi organi di stampa avevano appena trascorso un anno e mezzo ignorando milioni di manifestanti contro il genocidio in tutto il mondo e coprendo le atrocità di massa di Israele a Gaza.
“Guardate!”, ci viene detto. “Quelle manifestazioni dimostrano che la gente di Gaza vuole essere libera da Hamas! Questo giustifica tutto ciò che Israele e i suoi alleati hanno fatto!”.
Ma, ancora una volta, le azioni di Israele non hanno nulla a che fare con Hamas. Hamas non è la ragione, è la scusante. La giustificazione per portare avanti un'agenda che Israele sta cercando di portare avanti da quando esiste come Stato moderno.
Questo è ciò che i sostenitori e i difensori di Israele stanno realmente sostenendo. Non l'eliminazione di Hamas e certamente non la libertà dei palestinesi. Sostengono la fine dell'esistenza dei palestinesi sul territorio palestinese. Per quanto cerchino di indorare la pillola, questa è la loro posizione. Questo è ciò che Israele vuole, quindi sostenere le azioni di Israele a Gaza significa necessariamente sostenere i fini verso cui Israele sta spingendo.
(Traduzione de l'AntiDiplomatico)
*Giornalista e saggista australiana. Pubblica tutti i suoi articoli nella newsletter personale: https://www.caitlinjohnst.one/
Data articolo: Mon, 31 Mar 2025 07:30:00 GMT
di Giuseppe Giannini
Israele rappresenta una minaccia per la convivenza pacifica in Medio Oriente. L'accresciuta conflittualità con le realtà islamiche (sciiti e sunniti, l'Iran e la Turchia), mette in pericolo la democrazia. Uno Stato nato grazie all'occupazione dei territori palestinesi, consentita dalle potenze occidentali come forma di risarcimento a causa dell'Olocausto, che nel corso del tempo ha acquisito una tale potenza da farne uno dei Paesi più influenti sullo scenario politico internazionale.
Gli Stati Uniti d'America sono l'alletato principale, l'amico fedele che ha permesso ogni tipo di sopruso. Questo perchè le lobby ebraiche, presenti anche in Europa, i fanatici religiosi integralisti (come il radicalismo di matrice araba), e il sionismo, quale movimento transnazionale, permeano le scelte statunitensi: dalle candidature alla politica estera. Nei decenni la comunità internazionale ha tenuto gli occhi chiusi, accettando, nel caso israeliano, di derogare al rispetto dei diritti umani e al principio della non ingerenza. Sono state sopportate le occupazioni, i nuovi insediamenti, le violenze dei coloni e dell'apparato amministrativo-militare. Regimi di segregazione, apartheid legalizzato, detenzioni ed uso eccessivo della forza anche verso i minori, torture.
Ogni genere di abuso giustificato dalla lotta per la propria sopravvivenza contro gli attacchi terroristici, ma nel complesso contro la resistenza di un intero popolo, che reclama il diritto di esistere, di essere riconosciuto. Le risoluzioni dell'ONU relative al rispetto delle convenzioni internazionali puntualmente disattese.
Ci sono stati un prima ed un dopo. Bisognerebbe contestualizzare i singoli eventi, i passaggi determinanti e fare delle distinzioni. Gli accordi di Oslo nel 1993 prefiguravano una speranza: la possibilità di coabitazione fra i due popoli. Sappiamo come è andata. Successivamente la presa del potere da parte delle destre da Sharon (già protagonista in negativo dell'eccidio di Shabra e Shatila) a Netanyahu e una serie di accadimenti hanno reso ancora più complicato il dialogo. Le intifade e la corruzione in seno all'ANP; lo scontro per la leadership tra Fatah ed Hamas; la scomparsa dei leader storici, figure riconosciute in sede internazionale come Yasser Arafat, e la detenzione ultraventennale di Marwan Barghuthi. Fattori che hanno contribuito ad intensificare il dominio sionista, complice il silenzio delle democrazie occidentali, interessate a stringere alleanze commerciali e di partneriato militare con gli israeliani, e a tenere nascosta la questione palestinese.
Intere generazioni di palestinesi private di possibilità. Traumi vissuti, raccontati (chiunque abbia conosciuto un palestinese emigrato in Europa sa quali e quanti sofferenze hanno subito), rimasti inascoltati. Ed ora il vuoto di tanti che non si riconoscono in nessuna delle organizzazioni storiche. Mentre si rafforza l'aderenza verso componenti estremistiche come unica via di uscita dall'oppressione, ma che rischia di far ricadere nell'arretratezza culturale e in una diversa forma di tirannia i sottoposti. E' quanto avviene sotto le teocrazie, o nelle repubbliche islamiche del velo ( dall'Iran all'Afghanistan, dalle petromonarchie alla Siria). Il fanatismo al potere.
Il dopo ha luogo con l'attentato del 7 ottobre del 2023. L'inizio di una fase che per Israele segna un passaggio storico epocale, e che così ha avuto il suo 11 settembre. E, come nel caso americano, gli ebrei al potere stanno rimodellando gli eventi e ridisegnando gli equilibri.
Con il Patriot Act il securitarismo americano è andato oltre confine ( i sequestri della CIA), contemplando le torture (Guantanamo, Abu Ghraib) al fine di controllare, ed esportare la guerra al terrore. Dopo i fatti di Hamas la guerra è verso la popolazione civile palestinese. Le dichiarazioni dei coloni, dei ministri israeliani, e dell'amministazione Trump parlano chiaramente di deportazione. Non c'è posto per loro nelle terre in cui sono nati. Nel frattempo i media distraggono l'opinione pubblica, nascondono le enormi manifestazioni di protesta e di solidarietà con le vittime che hanno luogo in tutte le città europee ed americane, fanno propaganda. Da noi uno su tutti Enrico Mentana, che dopo aver messo in dubbio il numero dei morti tra i palestinesi, adesso evita di usare il termine coloni per non farsi capire dagli ascoltatori. Intanto le violenze non si fermano.
Le uccisioni, ed anche le detenzioni arbitrarie nei confronti dei giornalisti indipendenti che provano a raccontare il dramma. Israele decide di andare avanti. Con il sostegno di armi e tecnologie occidentali, tanto che diverse aziende europee sono coinvolte nella cybersicurezza israeliana. Quelle automobilistiche in crisi strutturale di approvvigionamento appaltano commesse nell'high tech o sono destinate ad essere convertite nelle produzioni belliche per far riprendere l'economia di guerra cara al duo Von der Leyen- Draghi (gli 800 miliardi!).
I fondi di investimento lucrano. Nessuno potrà intromettersi e cercare di bloccare il compito secolare di appropriazione e distruzione. Il genocidio è in atto. Il colonialismo si allargherà ai territori sul confine siriano. Gli ostaggi ancora in mano ad Hamas saranno le ultime vittime da sacrificare pur di non scontentare le ambizioni dei coloni.
Nel resto del mondo i sistemi di intelligence, il Mossad, ed i software spia sono operativi.
Nessuno è più al sicuro. Qualcuno auspicava una grande manifestazione sullo stile di quella a favore dell'Europa (di guerra) promossa da Repubblica, e co-finanziata dal comune di Roma per oltre duecentomila euro. Soldi che avrebbero potuto essere spesi a sostegno di iniziative di pace o destinate alle popolazioni sofferenti.
Si sa, i benestanti hanno una concezione tutta loro della democrazia, che mette al centro il dominio dell'uomo bianco. Allora Netanyahu approffitta del momento tentando di far approvare quella riforma della giustizia che ha l'intenzione di depotenziare il settore giudiziario e di sottoporlo alla volontà dell'esecutivo.
Un pò come sta accadendo in altre democrazie liberali e da noi. Tentativo di riforma che vede accese proteste nelle città israeliane, allo stesso modo di quelle avvenute due anni fa prima dei fatti di Hamas. Pare che adesso anche i nostri media se ne siano accorti. D'altro canto il premier israeliano, al pari dell'omologo ucraino, poggia la propria permanenza al potere sull'economia di guerra e la deriva autoritaria. In mancanza delle quali, in considerazione anche di ulteriori elementi quali la corruzione, le indagini che lo riguardano ed il mandato di cattura internazionale predisposto dalla CPI, decadrebbe.
In sintesi, la convivenza fra le regioni, nelle aree in cui sono presenti conflitti, vista anche la situazione ucraina e la permanenza delle velleità capitalistiche (l'altra faccia dell'imperialismo), è messa in serio pericolo.
Lo strapotere antidemocratico israeliano si palesa al di fuori dei suoi confini. Nel momento in cui in Occidente le discussioni sul genocidio vengono impedite, e sono tantissimi i casi, ad esempio la polizia in Germania che ha vietato l'incontro in cui avrebbe dovuto parlare la relatrice speciale dell'ONU Francesca Albanese, o l'arresto con minaccia di espulsione in America per l'attivista Khalil, oppure l'interrogatorio dello storico israeliano Ilan Pappè da parte dell'FBI per un post antisionista su facebook, o il boicottaggio all'incontrario nelle università "libere", diventa evidente che quando le controversie riguardino l'operato di Israele le democrazie arretrano.
Se in passato le critiche scomode passavano per antisemitismo, adesso il mutamento nella gestione del dibattito politico pur di non disturbare i sionisti decide di sospendere le stesse regole democratiche. Con buona pace dei finti paladini del rispetto del diritto internazionale come il Presidente Mattarella.
Data articolo: Mon, 31 Mar 2025 07:00:00 GMT
di Michele Blanco
Malgrado la grande campagna di disinformazione di stampa e televisioni a favore delle inutili spese militari, almeno il 39% degli italiani, secondo un sondaggio dell'istituto Ipsos (riportato sul Corriere della Sera), sono contrari al piano di riarmo europeo. I favorevoli sono il 28%. Sul conflitto in Ucraina il 57% degli italiani si dichiara equidistante tra Russia e Ucraina, mentre i sostenitori di Kyev sono scesi dal 55% del marzo 2022 al 32% di questa ultima rilevazione.
Un altro sondaggio, questa volta di Euromedia (pubblicato da uno dei maggiori quotidiani proriarmo, La Stampa) rivela che il 49,9% degli italiani è contrario all’invio di armi all’Ucraina mentre il 54,6% è contrario all’aumento delle spese militari (favorevole secondo questo sondaggio il 33,5%).
Si conferma in buona sostanza la contrarietà della maggioranza della popolazione alle avventure militariste in cui i governanti europei e quelli italiani vorrebbero, a tutti i costi, trascinarci.
Questi sondaggi dimostrano chiaramente che la costruzione del consenso, tramite bombardamento mediatico e falsità evidenti, come quella che afferma che la Russia vuole invaderci, intorno al riarmo europeo e alla escalation bellicista dovrà ancora lavorare molto per convincere la gente che riarmarsi è inevitabile quando non lo è assolutamente, e che la guerra può diventare un male necessario, ma è chiaro a tutti che la guerra è assolutamente evitabile. Nessuno sano di mente vuole armamenti e guerre al posto di servizi sociali, sanitari e istruzione di qualità.
Alla maggioranza degli italiani non interessa che “L’Europa deve mostrarsi forte” le modalità indicate dal piano dell' euroburocrate e ultraliberista baronessa Von Der Leyen Per fortuna il buonsenso popolare ha capito che tutto questo sta spingendo i popoli e i paesi europei su un pericolosissimo piano inclinato.
Malgrado i mezzi di comunicazione di massa tentano con tutto la forza possibile di occultare tutte le autorevoli opinioni di chi dice No al riarmo europeo e non uomo né un euro per le guerre volute solo dai costruttori di armi, affaristi e faccendieri vari.
Senza nessuna pubblicità il 15 marzo scorso a Piazza Barberini ha cominciato a riempirsi fino a doversi trasformare in un corposo corteo. In qualche modo la piazza alternativa ha sentito sulle spalle la possibilità di dare voce a quello che i sondaggi rivelano essere il sentimento assolutamente prevalente nella nostra pur disinformata società.
Questo conferma che in alcune occasioni occorre avere il coraggio di “gettare il cuore oltre l’ostacolo”.
I sondaggi ci confermano indiscutibilmente che lo spazio politico e sociale per una vera opposizione al riarmo e alla guerra c’è ancora ed potrebbe avere una forza dirompente. Ora è evidente che si tratta di sperimentare e capire come dargli rappresentanza, affinché diventi forte e ingombrante per un governo che rischia di trascinarci nella catastrofe bellicista e diventi un insormontabile ostacolo sulla strada anche di governi diversi dall’attuale ma che perseguono gli stessi scopi.
In questo momento di confusione politica e di pagliacci alla ribalta (vedi il super raccomandato Carlo Calenda dai Parioli) sarebbe stato, persino per la Meloni, così semplice fare la statista: bastava dire di no alla baronessa von der Leyen di Bruxelles e ai costruttori di armi, perché non c’è alcuna minaccia russa. Ma dobbiamo fare in modo che si realizzi la condizione necessaria per far funzionare la democrazia che consiste nell'avere a disposizione mezzi di comunicazione indipendenti e veritieri, cosa che da noi non esiste, i mezzi di comunicazione di massa, televisivi e giornali sono in mano agli stessi che controllano e fanno profitti con l’industria bellica.
Nella narrazione dei mezzi di disinformazione di massa, tutti di proprietà, o comunque controllati, dagli stessi azionisti delle fabbriche d’armi si vuole dare per scontata l’idea che siamo in pericolo perché l’Europa sta per essere invasa dalla Russia, ipotesi assolutamente priva di qualsiasi fondamento politico economico e, soprattutto dal punto di vista pratico-militare.
Purtroppo, oggi l’Unione Europea si è fatta custode dell’ortodossia ideologica neoliberale e globalista.
Inoltre, l’UE è umiliata innanzitutto da sé stessa, dai suoi tecnocrati antidemocratici e postdemocratici dai propri madornali errori politici, dalla propria cecità, è preda della più grande isteria. In questo momento con realismo bisogna renderci conto che l’interesse europeo per la difesa della democrazia non il riarmo contro la Russia, ma cercare di mediare ed evitare invasioni, guerre e conflitti con un ritorno a una politica di cooperazione economica tra Est e Ovest, dove L’Europa abbia un ruolo centrale come ponte diplomatico tra le grandi potenze.
Ora bisogna aiutare il popolo ucraino a non essere depredato da Trump, fare in modo che ci siano elezioni democratiche e con rappresentanti legittimi si negozi una pace giusta. Ma se ci poniamo la domanda su quali sono le cause profonde che alimentano l’attuale declino delle società occidentali europee, in particolare, e della sempre meno partecipazione democratica dei cittadini? Credo che al primo punto ci sia lo scarso rispetto delle opinioni democratiche dei cittadini.
Un esempio ci basti pensare come la stragrande maggioranza dei cittadini italiani ed europei siano contrari alla guerra e all’aumento inaudito delle spese militari, preferendo in modo assoluto l’aumento delle spese in sanità, istruzione e sociali, mentre i governanti europei e italiani vogliono fare l’esatto contrario, tagliano le spese sociali e aumentano sconsideratamente le inutili spese militari. Allora come può una comunità che si autodefinisce democratica prosperare senza rispettare le opinioni della maggioranza dei suoi cittadini, senza un orizzonte collettivo di pace, convivenza e benessere che dia significato e coerenza al vivere sociale.
Negli anni passati è stato importante il saggio e decennale sforzo europeo di coinvolgere Russia e Cina in una collaborazione strategica economica e politica, sostenuto con entusiasmo dalla leadership russa e cinese. Oggi questo processo di sviluppo è stato infranto dalla feroce opposizione degli Stati Uniti, preoccupati che ciò avrebbe potuto minare il dominio mondiale statunitense.
Tutto questo non ci viene assolutamente spiegato dalla stampa e dall’informazione in generale.
È arrivato il momento di rispolverare il motto del filosofo Kant: "Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!" Sono felice di sapere che la maggioranza degli italiani usi la propria intelligenza e si dichiari contro la guerra e l'inutile riarmo.
Data articolo: Mon, 31 Mar 2025 07:00:00 GMT
di Sandrino Luigi Marra
Von Clausewitz affermava: “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi.”. Spesso è la reazione a modalità politiche da cui non si riesce per vari motivi a porre una soluzione o a trovare un accordo che pone rimedi a situazioni inascoltate. Ma cosa è accaduto in Ucraina che ha portato al conflitto e come nella realtà la storia stessa del conflitto si è evoluta? Cerchiamo di comprendere come si sono svolti gli eventi i “reali” e non propagandistici.
Il 24 agosto 1991, il Parlamento dell’Ucraina sovietica, la Verkhovna Rada, dichiara l’Ucraina uno “Stato democratico indipendente”, poco dopo il tentato colpo di Stato a Mosca organizzato per rovesciare Gorba?ëv, indicendo un referendum nazionale. Ai cittadini venne chiesto di approvare o respingere la dichiarazione del Parlamento. Il 92 per cento degli elettori ucraini approvò la dichiarazione di indipendenza, anche nelle zone del Paese che sembravano più legate a Mosca (a Donetsk e a Luhansk il “sì” ottenne l’84 per cento; in Crimea il 54 per cento). Uno dei principi fondanti della sua costituzione era divenire una nazione in cui l’ucrainità è definita dal principio civico per cui il popolo ucraino è composto da cittadini dell’Ucraina appartenenti a tutte le nazionalità e a tutte le etnie.
Nei primi anni duemila il paese oltre ad essere indipendente desidera essere neutrale e condividere rapporti tra le due realtà che geograficamente sono ad esse vicina, l’Europa ad Ovest, la Russia ad Est.
Nel 2004 elegge un Primo Ministro neutralista Victor Janukovyc che viene poi rimosso con gli eventi di Maidan, il movimento di protesta sorto all'indomani delle elezioni presidenziali del 21 novembre 2004, parte del più ampio fenomeno delle rivoluzioni colorate.
I primi risultati vedevano il delfino dell'ex presidente Leonid Ku?ma, Viktor Janukovy? in vantaggio. Ma lo sfidante Viktor Juš?enko contestò i risultati denunciando brogli elettorali, e chiese ai suoi sostenitori di restare in piazza fino a che non fosse stata concessa la ripetizione della consultazione.
A seguito delle proteste, la Corte Suprema ucraina invalidò il risultato elettorale e fissò nuove elezioni per il 26 dicembre. Questa volta ad uscirne vincitore fu proprio Juš?enko, con il 52% dei voti contro il 44% del suo sfidante. Il nuovo Primo Ministro si insediò il 23 gennaio 2005.
Nel 2010 viene eletto Janukovyc quale Presidente nel 2013 vince anche le elezioni politiche, la volontà del paese resta ancora una volta la neutralità. Quell’anno da parte europea si propone un accordo commerciale da 3 miliardi di euro che è il primo passo per una apertura ed una possibile entrata nell’Unione Europea. Janukovic si dichiara interessato, e nello stesso periodo la Russia offre un accordo commerciale con una unione doganale con Russia, Bielorussia e Kazakistan da dieci miliardi di Euro. Viene congelato l’accordo con l’Europa il quale oltretutto è difficile da sostenere per il suo paese poiché le richieste di prestiti sovvenzionati dalla BCE e le clausole per un futuro ingresso nella comunità prevedono un aumento del 40% del costo del Gas, un ridimensionamento per le spese del walfare. La Russia offre invece un prestito di venti miliardi di Euro con un accettabile interesse sulla restituzione, ed una riduzione del prezzo del Gas del 35%. Si ripetono di nuovo le proteste del 2004 Janukovic accoglie il delegato europeo per l’accordo, ma l’Europa dichiara che vuole rigettarlo perché l’Ucraina vuole troppi denari, contemporaneamente la Russia dice che possono coesistere un rapporto dell’Ucraina con ambo le realtà vicine, ma le proteste cambiano di nuovo, divenendo richieste di allontanamento del Presidente. Ma le proteste vengono guidate ad un certo punto da fazioni diverse, con la presenza e le dichiarazioni di attori diversi che dichiarano l’interesse statunitense alla cacciata di Janukovic.
Le manifestazioni degenerano ad opera di elementi di destra e neonazisti che portano all’intervento della polizia antisommossa. Janukovic promette cambiamenti, la costituzione di un nuovo governo con la presenza dei leader delle opposizioni. Il 21 Febbraio 2014 Janukovic con la mediazione di Russia, Francia, Polonia e Germania raggiunge una intesa di riforma costituzionale: governo di unità nazionale, elezioni anticipate entro dicembre. Ma la protesta degenera con infine un centinaio di morti e oltre mille feriti. Un perito Ucraino-Canadese che si andrà ad occupare della strage affermerà che cecchini spararono sulla folla innescando la tragedia, e che questi fecero fuoco dai palazzi occupati dai manifestanti, si giunse così a sospettare l’intento di rovesciare il governo innescando un Golpe in seguito alla strage. Intanto sui social compare una telefonata intercettata tra incaricati governativi statunitensi dove si prospetta la sostituzione di Janukovic con Jaceniuk, e il 23 Febbraio dopo la fuga in Russia di Janukovic, l’occupazione del parlamento ed il rovesciamento della maggioranza viene nominato Jaceniuk.
Questi forma un nuovo governo con quattro dei ministri che appartengono a formazioni politiche neonaziste, mentre l’altra parte dell’Ucraina ovvero quella del Sud e dell’Est gridano al colpo di Stato scende nelle piazze. Jaceniuk per tutta risposta invia l’esercito, ne nasce così una guerra civile. Molti soldati Ucraini rifiuteranno di far fuoco sui propri connazionali e qui giunge l’intervento delle milizie armate; Battaglione Azov, Aidar, Nipro 1 e 2, compagnia "Tornado" (che diverrà ampiamente nota per un caso penale aperto in relazione a numerosi crimini commessi durante la guerra nel Donbass) che reprimono la rivolta con la forza uccidendo politici di sinistra e sindacalisti. La Crimea a questi fatti si ribella istituendo un referendum per dichiarare l’indipendenza ed il 96% dei votanti chiede l’annessione alla Russia.
Le forze armata russe occupano la Crimea mentre l’occidente che ha appena avallato l’indipendenza del Kossovo non riconosce l’indipendenza della Crimea andando contro lo stesso diritto internazionale dell’autodeterminazione dei popoli. Il 2 Maggio ad Odessa migliaia di persone che protestano contro il Golpe di febbraio vengono assalite da neonazisti e 42 persone muoiono tra le fiamme della casa del sindacato dove si erano rifugiati per sfuggire agli scontri. Nessun colpevole per i tribunali Ucraini. 11 Maggio referendum nel Donbass per l’indipendenza delle regioni di Luhansk e Donetsk le elezioni portano alla vittoria del sì rispettivamente per il’79% e l’86% degli aventi diritto al voto. Il 25 Maggio 2014 le elezioni per il nuovo presidente portano alla vittoria di Porosenko. Porosenko per stabilizzare la situazione porta alla realizzazione del patto Minsk 1 che prevede l’autonomia del Donbass, allontanamento delle armi pesanti, area di sicurezza larga 50 km. Ma il tutto in breve non si realizza, le milizie fanno pressione sull’esercito e riprendono i bombardamenti e le azioni di guerriglia verso le aree della regione di fatto è guerra civile. A Minsk l'11 febbraio 2015, tra i capi di Stato di Ucraina, Russia, Francia e Germania viene siglato il Protocollo Minsk II: Il testo del protocollo è composto da 13 punti:
Assicurare un cessate il fuoco bilaterale immediato dal 15 febbraio 2015.
Nel 2017 negli USA è eletto presidente Donald Trump il quale allontana tutti coloro che in qualche modo avevano partecipato alle questioni ucraine e fomentato attori ed istituzioni, questi passano al partito democratico.
2019 Porosenko fa approvare in costituzione una clausola che vuole l’Ucraina membro dell’Europa e l’entrata nella NATO. Alle elezioni presidenziali Porosenko è sconfitto e viene eletto Zelensky, è chiara la volontà popolare, non si vuole entrare nella NATO consci che ciò è una palese dichiarazione di guerra alla Russia. Zelensky russofono e di origini ebraiche promette la cessazione delle ostilità nel Donbass, la lotta alla corruzione e la neutralità del paese. Il suo partito si chiama “servitore del popolo” come lo era la sua fiction televisiva, ricordando che Zelensky è un attore comico; la rete televisiva che mandava in onda il suo spettacolo appartiene ad un tale Kolomojs'kyj oligarca dei metalli, fuggito in Israele dopo aver derubato i correntisti della sua banca privata per ben 5 miliardi di euro, finanziatore di una trentina di milizie di estrema destra. Zelensky tra le sue prime azioni politiche chiama Putin con l’intento di fermare la guerra civile, ma poi si rimangia tutto pressato dalla destra estremista del paese. Riprende così il conflitto in Donbass, Zelensky di fatto rovescia ciò che aveva promesso in campagna elettorale. Nel 2019 Macron propone a Putin una soluzione chiamata Staenmeier, dal nome del Presidente tedesco; la proposta è superare lo stallo costituzionale ucraino attraverso elezioni regionali e la definizione di statuto di autonomia di Donetsk e Luhansk. Putin è d’accordo, lo è Zelensky e Trump incoraggia il procedimento, ma 10.000 nazionalisti scendono in piazza a Maidan incoraggiati da Porosenko gridando al tradimento e volendo le dimissioni di Zelensky. Il conflitto riprende. A dicembre Macron ci riprova definendo che la NATO è cerebralmente morta, invita all’Eliseo Putin, Zelensky e la Merkel per rilanciare gli accordi di Minsk. Putin ne chiede il rispetto, Zelensky rifiuta. 2021 Biden vince le elezioni, a giugno incontra Putin dove questi chiede garanzie per il rispetto degli accordi e il non allargamento della NATO ad Est, ma la risposta di quest’ultima sono tre mega esercitazioni militari in 4 mesi in Ucraina. La risposta Russa alle esercitazioni è l’ammasso di truppe al confine.
L’Ucraina e gli USA firmano un patto di sicurezza l’1 Dicembre Zelensky parla nuovamente di accordi per porre fine al conflitto in Donbass, ma piazza Maidan si riempie ancora una volta di proteste guidate da Porosenko. 15 Dicembre Putin propone degli accordi agli USA ed alla NATO in nove punti tra cui l’impegno comune a non partecipare ad attività che incidano sulla sicurezza di uno e dell’altro, niente entrata della Ucraina nella NATO e dei paesi ex sovietici tra cui le tre repubbliche baltiche, nessuno schieramento di armi nucleari. Il giorno successivo Stoltenberg in compagnia di Zelensky dichiara che è la NATO che decide chi deve entrare nell’organizzazione e non Putin.
Si grida per settimane all’invasione e ai primi di Febbraio del 2022 Macron vola da Putin che gli dice che non vuole l’escalation e che non c’è sicurezza per l’Europa se non c’è sicurezza per la Russia. Poi si reca da Zelensky con la dichiarazione della volontà di Putin ad accettare nuovamente accordi sul Donbass per giungere alla pace. Blinken invece risponde con “porte aperte per l’Ucraina nella NATO”. 9 Febbraio, Zelensky cambia ancora idea e dopo aver promesso di rispettare Minsk, a Macron dice di non voler più mantenere la parola data, non accetterà gli accordi di Minsk; si accentuano gli attacchi in Donbass. La Russia aumenta le truppe al confine, e dice di non volere l’invasione ed il 14 Febbraio Lavrov dichiara che c’è ancora spazio per il dialogo ma che non c’è un tempo infinito. Scholz si reca a Mosca poi a Kiev chiedendo a Zelensky di rinunciare all’entrata nella NATO dichiarando oltretutto che ciò non è in agenda e Zelensky risponde che tale ingresso è un sogno remoto. Ma gli USA imperterriti continuano a dire che l’Ucraina deve entrare nella NATO.
18 Febbraio Kamala Harris dichiara che Putin ha già deciso per l’invasione.19 Febbraio Scholz ancora una volta prega Zelensky di non dare adito al conflitto e di rinunciare all’entrata nella NATO ma Zelensky rifiuta di dichiararlo. Macron prova ancora a mediare con una lunga telefonata a Putin il quale risponde che non c’è ancora chiusura ma gli attacchi nella regione del Donbass si incrementano e le popolazioni chiedono il 21 alla Russia di riconoscere la loro indipendenza. Putin che fino ad allora non l’ aveva fatto la riconosce. Il 22 Febbraio Donetsk e Luhansk chiedono alla Russia assistenza militare contro il l’intensificarsi degli attacchi, Usa, Gran Bretagna e Unione Europea annunciano sanzioni. Zelensky non crede ancora all’invasione e continua con le azioni militari, l’ambasciatore Russo all’ONU dice di non perseguire con l’atteggiamento e seguire la via diplomatica senza nuovi bagni di sangue in Donbass.
23 Febbraio Biden invita Francia e Germania ad interrompere ogni colloquio con Mosca annuncia ancora l’invasione che infine il 24 Febbraio avviene. Nel giro di poche settimane Zelensky con l’intermediazione della Turchia cerca una risoluzione al conflitto, la Russia si siede al tavolo negoziale e contemporaneamente ritira parte delle truppe di invasione in segno di buona volontà, ma il Britannico Boris Jhonson ad Aprile 2022 si reca ad Ankara e gli accordi ad un passo dalla sottoscrizione vengono annullati. Da quel momento è storia che conosciamo. Nel maggio del 2022 Petro Porošenko ha dichiarato in un'intervista al Financial Times che gli accordi di Minsk sono stati un successo in quanto avevano mantenuto i russi oltre i confini dell'Ucraina congelando il conflitto ma concedendo del tempo al paese per ripristinare l’economia e creare delle potenti forze armate.
Angela Merkel, in un'intervista alla rivista Die Zeit nel dicembre del 2022, ha dichiarato che gli accordi di Minsk non erano un tentativo di stabilire la pace nell’Ucraina dilaniata dalla guerra, ma che sono stati un tentativo "di dare tempo all'Ucraina" di ricostruire il suo esercito. Dunque infine ritornando al punto di partenza come scriveva Von Clausewitz “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi.” una politica che chiedeva delle garanzie e delle autonomie, una politica inascoltata che si è risolta nel peggiore dei modi ovvero la guerra, con una serie di azioni e dichiarazioni che danno adito a pensare che dunque non c’è stata una sola strada decisionale a senso unico, ma che “forse” si è spinto all’azione del perseguire con altri mezzi richieste politiche restate inascoltate. E dunque sarà la storia che indicherà responsabili e corresponsabili oltre ad irresponsabili che giocando al risiko della politica altro non hanno fatto che guidare sulla strada del conflitto. Ai posteri la sentenza.
Data articolo: Mon, 31 Mar 2025 07:00:00 GMT
di Stefano Macera, Emiliano Genrili, Federico Giusti
Nei giorni scorsi è uscito il Rapporto Mondiale sui salari 2025-2026, redatto dall’Oil (Organizzazione Mondiale del Lavoro). Variamente commentato sui media nostrani, è da ritenersi uno strumento prezioso. Permette infatti di farsi un’idea delle tendenze in atto su una scala globale. Particolarmente indicativa è la parte relativa all’Italia, sulla quale si sono concentrati i giornali nostrani. Certo, le testate di casa nostra non brillano per attenzione alla condizione di chi lavora, ma ciò che emerge dal Rapporto ha imposto loro di parlarne.
In Italia i salari reali sono inferiori a quelli del 2008, nell’ordine dell’8,7%. E la performance del Belpaese risulta la peggiore tra i paesi del G20. In alcuni dei quali, nello stesso lasso di tempo, i salari sono aumentati. Da noi, la tendenza negativa è stata confermata dal calo del 2022 e del 2023 (rispettivamente: –3,3% e –3,2%). Il modesto aumento registrato nel 2024 (+2,3%) non ha consentito nessun recupero rispetto al costo della vita, che negli anni immediatamente precedenti aveva toccato livelli altissimi.
Invero, dai (piccoli) segnali in controtendenza dello scorso anno è uscita rafforzata soprattutto la retorica filogovernativa. Per dire, a fine luglio 2024 il Giornale riusciva a proporre un articolo trionfalistico nel titolo (“I salari crescono e battono l’inflazione. Si riduce la distanza con il resto d’Europa”[1]) e nella sostanza. E, per dare credibilità a un discorso ai confini del favolistico, si appoggiava al verbo di un docente bocconiano: Maurizio Del Conte, professore ordinario di diritto del lavoro. Il quale si esprimeva in questi termini: «I progressi nelle retribuzioni sono la positiva conseguenza della tornata di rinnovi contrattuali (…). I lavoratori con un contratto scaduto sono scesi da circa uno su due di un anno fa a meno del 15% di oggi». E ancora, tanto per essere chiari su un rilevante tema dell’odierno dibattito: «Si tratta di dati molto confortanti (…) che confermano quanto nel nostro paese per far crescere i salari l’unica via è quella della contrattazione collettiva, con buona pace dello sterile dibattito sul salario minimo». Ora, a smentire tali discorsi è proprio la realtà degli ultimi anni. Segnata dall’accettazione, da parte delle maggiori forze sindacali, di non pochi contratti capestro.
L’obiettivo di certa stampa, pur non dichiarato, risulta evidente: sottolineare come, con il governo Meloni, si stia approdando a nuovi lidi di prosperità diffusa. Ora, smentire una siffatta propaganda non è secondario, così come risulta necessario ribadire le gravi responsabilità dei governi precedenti, diversi dei quali di centrosinistra. Tutti hanno concorso alla dinamica salariale descritta dall’Oil, così negativa da portare l’Italia a staccare, sotto questo profilo, paesi come la Spagna o quel Giappone che viene da ben 15 anni di crisi. Il picco della perdita del potere d’acquisto si è avuto nel 2022 e, da allora, miglioramenti sostanziali sono stati avvertiti solo dalle veline governative. Laddove, nella situazione nostrana di roseo non c’è nulla, se si tiene conto pure di altri fattori, come le notevoli diseguaglianze economico-sociale e di genere e il sostanziale blocco dell’ascensore sociale.
Nel Rapporto dell’Oil vi sono numerosi grafici, associati a uno studio accurato su come si sono evoluti i salari reali a livello globale. In termini generali, le economie avanzate registrano un calo degli stessi, laddove nei paesi emergenti se ne è registrata la crescita costante nel corso del tempo. Il che, per certi versi, potrebbe rimandare a un mutamento dei rapporti di forza su scala planetaria. Nonché a eventuali dinamiche conflittuali, diffuse nelle economie emergenti e poco note e studiate dalle nostre parti. Ma torniamo al nostro paese. In esso, per un buon quindicennio, si è registrata una bassa produttività, ma negli ultimi due anni qualcosa è cambiato. La produttività è cresciuta, più dei salari, tanto che i commentatori del Corriere della Sera non solo individuano lo spazio per un più serio aumento delle retribuzioni. Ma, a loro modo, mettono in evidenza l’inadeguatezza del modello vigente di contrattazione. Che assume «come riferimento un indice d’inflazione, l’Ipca, [calcolato] al netto dei prezzi dei beni energetici importati». E dunque, tale da non coprire «una delle voci che ha gravato di più sui bilanci familiari»[2]. In più, lo stesso modello rinvia «la distribuzione dei guadagni di produttività ai contratti aziendali», offrendo «questa possibilità solo a una minoranza dei lavoratori, in genere quelli delle grandi aziende»[3].
Ovviamente, a queste precisazioni del Corsera non attribuiamo un carattere risolutivo e definitivo. Sta di fatto, però, che in esse vi è la smentita di alcuni trionfalismi non solo filo o paragovernativi, ma anche legati ai sindacati meno dediti alla causa di chi lavora. Quelli, per intenderci, che non esitano a schierarsi frontalmente contro il salario minimo legale, riproponendo in altra forma i ragionamenti bocconiani poc’anzi riferiti. Al riguardo, non si può non citare Daniela Fumarola, che ha festeggiato la sua designazione a Segretaria Generale della Cisl rilasciando un’intervista al quotidiano la Repubblica[4]. Qui, ella ha ribadito che le questioni inerenti il mercato del lavoro debbono «rimanere nell’alveo della contrattazione e delle relazioni sindacali». Non solo, a suo dire una legge sul salario minimo «rischierebbe fortemente di schiacciare i salari verso il basso». Il che, se la situazione non fosse drammatica, farebbe affiorare il sorriso. Perché basta citare importanti studi di matrice istituzionale per smentire queste parole.
Per dire, nel luglio 2023 si è parlato di una ricerca della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro, relativa a 63 contratti collettivi firmati da Cgil, Cisl e Uil, scelti in virtù della loro rappresentatività. Bene, dalla ricerca è emerso che, tra di essi, «ben 22, ovvero oltre un terzo, prevedono una retribuzione oraria al di sotto dei 9 euro lordi (con inclusi TFR, 13esima e 14esima)»[5]. Dunque, Fumarola non dorme la notte al pensiero del ribasso delle retribuzioni, ma si dimentica che il suo sindacato (e non solo il suo) ha contribuito a farle scendere ben al di sotto di quanto previsto nelle proposte di salario minimo legale.
Ora, con simili organizzazioni dei lavoratori non stupiscono gli altri dati che emergono dallo studio dell’Oil. Tra questi vi è il divario salariale di genere, che è pari al 9,7%. Non è, in senso assoluto, il dato peggiore dell’Ue, ma rimane uno dei più elevati, a conferma di una storica arretratezza del nostro paese. Tra le sue cause vi è la diffusa prassi del part-time involontario, che ufficialmente viene denunciata dalla Cisl, così come da Uil e Cgil. Visto il comportamento generale di queste organizzazioni, non è scontato che alle parole vibranti seguano sforzi concreti superare realmente il divario di genere. Del resto, anche attorno ai 5,6 milioni di persone in condizioni di povertà assoluta si producono molti bei discorsi. Da parte dei maggiori sindacati come di alcune forze politiche, che magari ora non governano e quindi si possono permettere di riscoprire occasionalmente le tematiche sociali.
Il punto è che tali questioni non possono essere affrontate separatamente. Nel Rapporto emerge anche una notevole differenza tra i salari dei lavoratori autoctoni e quelli immigrati. I secondi, rispetto ai primi, percepiscono retribuzioni inferiori del 26,3%: una divaricazione rilevante e anche preoccupante. Che può essere contrastata solo in un discorso generale, tale da porre al centro la questione salariale e la lotta contro tutte le diseguaglianze e discriminazioni. Ora, mai come oggi tale battaglia complessiva deve emanciparsi da una pericolosa illusione, rilanciata con vigore dalla Cisl e rimodulata in termini più sfumati da Cgil e Uil. Quella per cui l’erosione salariale e la costante perdita di diritti possono essere frenate attraverso la contrattazione collettiva e il dialogo sociale. A cosa abbia portato tale impostazione è ormai sotto gli occhi di tutti. Anni e anni di politica salariale moderata, spesso spinta sino all’austerità salariale vera e propria, hanno portato vantaggi al solo padronato. Laddove la classe lavoratrice e i percettori di redditi medio-bassi si confrontano quotidianamente con un netto peggioramento delle condizioni di vita, non compensato da un sistema di welfare sempre meno adeguato a rispondere ai bisogni sociali dei più. In tale contesto, occorre portare avanti pratiche collettive di difesa del potere d’acquisto dei salari e di rilancio dei servizi sociali, depauperati da anni di contenimento della spesa pubblica. In sostanza occorre tornare al conflitto, da sempre principale leva dell’emancipazione delle persone sfruttate e oppresse.
[1] Titta Ferraro, I salari crescono e battono l’inflazione. Si riduce la distanza con il resto d’Europa, 27 Luglio 2024, https://www.ilgiornale.it/news/politica/i-salari-crescono-e-battono-linflazione-si-riduce-distanza-2351284.html.
[2] Enrico Marro, Salari reali, nessuno peggio dell’Italia: rispetto al 2008 perso l’8,7% del potere d’acquisto (e in Germania è salito del 15%), 25 Marzo 2025, https://www.corriere.it/economia/lavoro/25_marzo_24/salari-reali-nessuno-peggio-dell-italia-rispetto-al-2008-perso-l-8-7-del-potere-d-acquisto-e-in-germania-e-salito-del-15-8f29fe3d-5c41-4375-a665-48d02a460xlk.shtml.
[3] Ibid.
[4] Rosaria Amato, Fumarola “Siamo autonomi ma il governo è attento al dialogo Il salario minimo impoverisce”, 13 Febbraio 2024, «la Repubblica», https://www.cisl.it/notizie/attualita/siamo-autonomi-ma-il-governo-e-attento-al-dialogo-il-salario-minimo-impoverisce-la-repubblica/.
[5] Rita Querzè, Salario Minimo, i 22 contratti di Cgil, Cisl e Uil sotto i 9 euro lordi, 21 Luglio 2023, https://www.corriere.it/economia/lavoro/23_luglio_21/salario-minimo-22-contratti-cgil-cisl-uil-sotto-9-euro-lordi-infografica-63a0b664-26fc-11ee-8ff1-5e0f92474986.shtml.
Data articolo: Mon, 31 Mar 2025 06:30:00 GMT
di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
Alla fine, senza più girarci tanto intorno, qualcuno ha deciso che anche il lessico debba rispecchiare i reali termini della questione oggi sul tappeto: la guerra, chi la sta preparando e briga per farla accettare a tutti. Dunque, in guerra, raccontano le cronache, ci sono essenzialmente due tipi di persone: i coraggiosi e i codardi. Non cabarettistici “eroi per caso” o sociologici “pavidi per temperamento”; semplicemente, audaci e vili. Nella situazione venutasi a creare col cosiddetto “complotto” Trump-Putin sull'Ucraina, i vili, spiega il signor Aldo Grasso sul Corriere della Sera, sarebbero quelli che invocano una tregua. Ma, dice, una «tregua non risolve un conflitto, è solo un senso di requie e di speranza» e, peggio ancora, «nei negoziati fra Trump e Putin», quella che si prospetta, più «che una tregua sembra una resa». Resa di chi a chi? Ce lo spiega il signor Grasso, una volta ribadito l'assioma per cui in «Italia viviamo in pace da 80 anni e forse non riconosciamo più il senso profondo di alcune parole». Ora, cosa si intende quando si parla di una “pace” che dura da 80 anni? Pace sociale? Pace per chi? Pace che dà “diritto” a qualcuno di andare a bombardare altri paesi fuori dell'Italia? Esiste «una grande differenza fra tregua e resa», chiarisce il signor Grasso. La resa è la «cessazione di ogni resistenza di fronte al nemico»: la codardia, insomma; punto e basta, dato che la volontà di risparmiare ai cittadini ulteriori macellerie, al fronte e nelle retrovie, è roba da «vili»; dato che la presa di coscienza del fatto che quella che viene imposta non sia la propria guerra, ma quella dei monopoli che sgozzano i popoli per riempire le proprie borse, non risponde ai «valori dell'occidente».
Dunque, ci si dice, la tregua rischia di diventare una «resa dei conti», con la «rinuncia incondizionata ai valori dell’occidente, al rispetto dei diritti umani e delle libertà civili, allo stato di diritto, alla sovranità nazionale, alle democrazie liberali». Appunto: le liberal-democrazie che proclamano e attuano il “diritto” di operai e lavoratori ad esser quotidianamente terrorizzati col ricatto del licenziamento; le demo-padronocrazie che affermano e realizzano la “libertà civile” della schiavistica situazione sanitaria, assistenziale e pensionistica; le denarocrazie di quello “stato di diritto” vigente nella democrazia borghese che – non inorridisca il signor Grasso per un rimando leniniano – è schiavitù salariale per l'operaio.
Al dunque: «Per non dare tregua ai vili, quegli europei consapevoli di non essere “patetici parassiti” devono scongiurare con fermezza la resa». Scongiurare la resa dei monopoli euro-liberali a quelli yankee-dispotici; escludere la resa, cioè la «cessazione di ogni resistenza di fronte al nemico», autocratico e aggressivo, attestato a est del Dnepr. Nessuna tregua, dunque. Che guerra sia, al fine; e i prodi europei, quelli che arditamente respingono la resa «di fronte al nemico», rifiutino anche di dar tregua ai “vili” che, autocraticamente, sono anche “aggressori”.
Libiamo anzi, spavaldi e ardimentosi, ai nuovi piani europeisti che, per escludere ogni tregua, avviano il Piano “porcospino” per l'Ucraina. Brindiam, ci dice entusiasticamente il signor Giuseppe Sarcina sullo stesso Corriere, alla prospettiva che i nazigolpisti di Kiev, con «meno soldati e più tecnologia», riescano a dotarsi di «Droni e missili a lungo raggio costruiti a tempo di record e a basso costo, anche con i fondi europei», dando così il via alla trasformazione del paese in quel «porcospino d’acciaio» prospettato dalla tagliagole Ursula von der Leyen, che sogna un'Ucraina «difficile da espugnare», alla stregua di «Israele o, forse in modo più appropriato», di Taiwan. Certo, ci dicono, la cosa non è così semplice: «senza il contributo degli americani tutto diventa molto difficile»; e poi c'è tutto «L’odio di Trump per l’Europa», esorcizzato dal signor Aldo Grasso! Ma, si può fare, suggeriscono dal “Atlantic Council” e dal “Bruegel”, partendo «dall’industria militare ucraina, in crescita tumultuosa e con ancora grandi potenzialità». Basterà continuare a seguire il «modello danese», ci informa il signor Sarcina, levitando dall'entusiasmo all'eccitazione per tutti quei missili a lunga gittata assemblati in Ucraina, col risultato che oggi Kiev sforna missili a un costo «di gran lunga il più basso in Occidente e competitivo anche con quello dei missili, meno sofisticati e con gettata minore, schierati dalla Russia». Una Russia che, d'altra parte, ricordiamolo, è tuttora costretta a recuperare microchip dai frigoriferi... o no? Poi il cronista, assurgendo dall'eccitazione all'esaltazione, ci confida anche un altro «fenomeno clamoroso», quale «lo sviluppo dell’industria dei droni», che assicura ai nazisti «il 96% del fabbisogno». Anche in questo caso, «a costi contenuti: 500 euro per ogni dispositivo, contro una media occidentale di 1.800 euro». Inteso? Non rimane che delocalizzare in Ucraina: costi minimi e profitti alle stelle. Del resto, lo spiattella lo stesso signor Sarcina: droni e missili del “porcospino d’acciaio” costituiscono per i monopoli europei «un’inaspettata opportunità di investimento in Ucraina», tanto che Rheinmetall, Knds, Thales e altri colossi si sono già mossi, in combutta con Ukroboronprom. Certo, servono soldi, tanti soldi: i 16 miliardi stanziati dai paesi europei non bastano; ne occorrono almeno altri 18: da chi prenderli? Che domande! «Per non dare tregua ai vili, quegli europei consapevoli di non essere “patetici parassiti” devono scongiurare con fermezza la resa» e prendere i soldi dalle larghe masse che devono credere nei «valori dell’occidente», che si genuflettono «al rispetto dei diritti umani e delle libertà civili»: insomma, basta non dare né tregua né resa alla macelleria sociale che arricchisce l'industria di guerra.
D'altronde, «diversi leader europei, Macron in testa, dubitano che Putin abbia davvero intenzione di deporre le armi»; quindi, perché gli si dovrebbe concedere una tregua che «sembra una resa»? Infido e subdolo com'è, sarebbe persino capace di «sottoscrivere una tregua formale, ma continuerà la guerra» e allora «l’esercito ucraino avrà bisogno di rinforzi. Subito». Avete inteso, voi vili, che non volete l'esercito europeo, non volete spendere 800 miliardi per l'impellente necessità di armarci e non volete nemmeno mandare soldati in Ucraina?
Seguite piuttosto il fulgido esempio dalla “martire del libero pensiero”, la signora Pina Picierno che, come ci racconta la signora Maria Teresa Meli, ancora sul Corriere, nella «travagliata vicenda del voto dem all’europarlamento sul Rearm Eu» e in particolare «sull’Ucraina tiene una linea di difesa senza se e senza ma». La signora Picierno, dunque, per la sua osservanza della fede (sionista), è arrivata a essere bersagliata da una “gogna amica”, vittima di una «polemica scomposta che proprio non mi aspettavo», portata da «un gruppetto - attenzione al lemma: questo non è che “un gruppetto” - «di parlamentari dem», con un’accusa che «sembra ricalcare certe note del fu Pci: incompatibilità con le politiche del Pd».
Vade retro PCI! Per quanto revisionista e socialdemocratico tu sia stato, ci ricordi però che, forse, qualche volta, ai tuoi tempi veniva osservata una certa qual immorale e anti-liberale disciplina di partito. E che male ci sarà mai, oggi, se una tua “discendente” di ramo demitiano, come la signora in odore di beatificazione Pina Picierno, si incontra con dei tagliagole sionisti massacratori di civili a Gaza. E poi lei, la signora, «nella sua veste di vice di Roberta Metsola con la delega all’antisemitismo», non consente «a nessuno di dirmi chi incontrare e che cosa fare» e si dice infastidita per la «grottesca» qualifica di «guerrafondai che è stata appiccicata addosso a lei e agli altri esponenti del centrosinistra che appoggiano il piano von der Leyen». Perché, è bene ricordarlo, lo scorso 12 marzo, a Strasburgo, la signora «Picierno, insieme ad altri compagni di partito» - ebbene sì: la “gogna amica” non veniva che da un “gruppetto”; questi qui, signori miei, sono invece dei veri e propri “compagni di partito” - aveva votato «sì al riarmo», perché «convinta che l’astensione fosse “un suicidio senza senso”».
Ora, di quali “compagni” o “gruppetti” si tratti; di quale “partito” si ragioni: ogni lettore è in grado di deciderlo in piena autonomia. Rimane il fatto che sia il genocidio perpetrato dai sionisti a Gaza, sia la macelleria che la junta nazista di Kiev si ostina a prolungare ai danni del proprio stesso popolo, pur di non concedere «una tregua che sembra una resa», sempre e comunque di guerra si tratta. Nell'uno e nell'altro caso, la signora Pina Picierno «tiene una linea di difesa senza se e senza ma»: a favore di sionisti e nazisti.
Ed è per questo che, a via Solferino, è così apprezzata. Soprattutto ora che si avvicina l'80° anniversario della Liberazione e c'è una pressante urgenza di ribadire che, su certe questioni, non ci sono “bandiere di partito”, perché la «Resistenza è patrimonio della nazione» e non certo dei comunisti. Quei demoni di comunisti fatti passare per unici antifascisti, dato che «solo in Italia... è passata l’idea per cui se sei antifascista sei comunista, o comunque di sinistra. Non è così». Firmato Aldo Cazzullo, nella nuova prefazione al suo libro del 2015 «Possa il mio sangue servire. Uomini e donne della Resistenza», di cui il Corriere della Sera anticipa alcuni brani. E che brani! Così accattivanti dal far balzare sulla sedia, leggendo che il «nazifascismo fu sconfitto da uomini di destra. Un conservatore inglese come Winston Churchill. Un nazionalista francese come Charles de Gaulle»; e ancora da un «oppositore del regime» hitleriano, che «non era un bolscevico; era un vescovo, di famiglia aristocratica»; dai pur eroici«ragazzi della Rosa Bianca, studenti universitari». C'era di tutto, insomma, fuorché il popolo sovietico, l'Esercito Rosso e il Partito Comunista del primo paese socialista che, da solo, per tre lunghi anni, dal 1941 al 1944, resistette alla guerra di sterminio dei nazisti contro l'Unione Sovietica e poi, sempre da solo, fino al 1945, eliminò l'ottanta per cento delle divisioni naziste. Ma, assicura il signor Cazzullo, il «nazifascismo fu sconfitto da uomini di destra».
Perché, in fondo, ci dice, la «scelta tra il nazifascismo e i suoi oppositori non è la scelta tra la destra e la sinistra. È la scelta tra la barbarie e la civiltà... Invece il valore dell’antifascismo è considerato oggi un valore di parte. Una cosa solo di sinistra. Nulla di più sbagliato». Un errore da matita blu! E si elencano i nomi di quanti, certo eroicamente, osarono dire di no all'obbligo di essere arruolati nelle bande della RSI schierate a fianco degli hitleriani: c'erano non solo comunisti, ma anche un «anticomunista di ferro» come Giovanni Guareschi, o i padri di cantanti, attori e politici oggi famosi, c'erano militari. C'era un sacco di gente: solo, vedete un po', i comunisti nella Resistenza sono stati così pochi! Ma «sia chiaro, hanno vinto loro. I fascisti, e gli anti-antifascisti. Milioni di italiani... pensano, magari in buona fede, che la Resistenza sia stata fatta soltanto dai comunisti, o comunque dalla sinistra. In realtà, la Resistenza fu un fenomeno plurale. Fu fatta da partigiani di ogni fede politica: comunisti, socialisti, azionisti, anarchici; ma anche moderati, cattolici, liberali, monarchici».
Già, vediamo un po'. Secondo lo storico Renzo Del Carria, durante la Resistenza agirono 575 Brigate “Garibaldi”, cioè comunisti, oltre ai GAP e alle SAP; 198 Brigate azioniste; 70 “Matteotti”, 255 autonome, 54 popolari. Stando allo storico Leo Valiani, i comunisti rappresentavano il 41% delle forze partigiane e gli azionisti il 29%. Secondo i dati delle commissioni per il riconoscimento della qualifica di partigiano, dei 256.000 riconosciuti come “partigiani combattenti”, 153.000 erano garibaldini, cioè comunisti. Su 72.500 morti, oltre 42.500 erano garibaldini; dei 39.167 feriti e mutilati, i garibaldini furono 18.460. Quanto alla composizione di classe (oddio: ancora con 'sta storia delle classi, grideranno inorriditi i Grasso e i Cazzullo, ligi ai «valori dell’occidente... allo stato di diritto... alle democrazie liberali») delle formazioni partigiane, secondo il comunista Pietro Secchia, il 30-35% era costituito da operai, con altrettanti braccianti, salariati agricoli, mezzadri e piccoli contadini; 15-20% da intellettuali, professionisti, studenti. Stando al “rapporto Hewitt”, citato dallo stesso Secchia, il 35,25% dei partigiani erano comunisti, il 10,5% democristiani, l'11% azionisti, oltre a 27,7% autonomi e 14% non precisati.
Ma, al di là delle cifre, pur oltremodo significative, è ancora una volta l'aspetto di classe che viene scientemente taciuto e che invece sta alla base di ogni analisi, in special modo sulla questione del fascismo e dell'antifascismo, senza omettere di ricordare la criminale natura antioperaia del primo, sin dai suoi inizi, e la contrapposizione popolare ad esso, che assunse carattere di massa con l'entrata in guerra dell'Italia.
Nel suo dispiegarsi, la lotta partigiana non fu affare di singoli o di gruppi, perché scaturiva da vent'anni di opposizione e resistenza, essenzialmente da parte dei comunisti, al regime fascista e alla sua politica di affamamento delle masse popolari, a vantaggio dei gruppi industriali e dei grandi proprietari terrieri. Tra la primavera e l'estate del 1944, ricordava negli anni '70 Giancarlo Pajetta, la guerra partigiana assume un «aspetto nuovo e si fa movimento di massa per la partecipazione diretta dei contadini. Braccianti, mezzadri, piccoli proprietari organizzano la resistenza contro i fascisti e i tedeschi», per poi arrivare alla «svolta decisiva», con brigate e divisioni partigiane costituite «in assoluta maggioranza di montanari e contadini», reagendo così al bando di Graziani per mobilitare la classe del 1925 e ai successivi rastrellamenti e rappresaglie.
Ancora a proposito del carattere di classe di fascismo e antifascismo e della partecipazione di singoli – i monarchici, le suore, i preti, generali o poliziotti citati dal signor Cazzullo - alla resistenza, Mario Alicata ricordava come monarchia e gruppi reazionari borghesi avessero operato fino all'ultimo per salvaguardare il regime di terrorismo e feroce sfruttamento delle classi lavoratrici e si dovette arrivare agli angloamericani alle porte e al punto che «l'apparato terroristico dello stato fascista minacciasse, dopo gli scioperi di marzo, di essere spazzato via dalla collera popolare... perché il re e la borghesia italiana trovassero la capacità di passare ad attuare il “colpo di stato”» del 25 luglio.
Inoltre: la lotta contro i tedeschi, scriveva l'Unità, il 10 settembre 1943, che non sia «contemporaneamente lotta a fondo contro il fascismo, è un'affermazione vuota di senso... che può corrispondere agli interessi e alle aspirazioni particolari dei ceti plutocratici reazionari, non certo a quelli generali nazionali» e la lotta contro tedeschi e fascisti «implica la mobilitazione delle grandi masse popolari... perciò tanta maggiore importanza e significato assumono, in questo momento, il compito e la funzione della classe operaia». In una società divisa in classi, ogni parto letterario, giornalistico o semi-storico che ignori quell'antitesi sociale, si riduce a una prova semantica cerebro-liberale.
La vittoria del fascismo, osservava Stalin nel 1934 a proposito della Germania, è non solo un «sintomo di debolezza della classe operaia e risultato del tradimento della classe operaia da parte della socialdemocrazia», ma anche un sintomo «del fatto che la borghesia non è più in grado di dominare coi vecchi metodi del parlamentarismo e della democrazia borghese». Una considerazione, questa, che vale, in generale, sia per la situazione dell'Italia dell'epoca, sia per il costante pericolo di ricorso al fascismo da parte delle classi sfruttatrici, ogni volta che i “normali” sistemi “democratici” risultino inefficaci a tenere sottomesse le masse popolari, in particolare quando si tratta di preparare coscienze e terreno materiale alla guerra.
Al VII Congresso dell'Internazionale Comunista, Georgi Dimitrov ricordava che «Il fascismo al potere... è la dittatura terroristica aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario». E la resistenza al fascismo è la contrapposizione delle classi popolari a quella dittatura di classe.
È dunque evidente che quando, come oggi, il capitale ha bisogno di far convergere ogni energia della società sull'obiettivo della preparazione alla guerra, ai suoi “ideologi” viene affidato il compito di far scomparire dalle coscienze ogni divisione di partito, ogni contrapposizione di classe. È infatti “doveroso” che prevalga una totalitaria “unità nazionale”, «senza se e senza ma», attorno all'obiettivo di foraggiare l'industria bellica e di convincere larghi strati di popolazione della “necessità della guerra”, sulla spinta sia dalla «travagliata vicenda» della signora Pina Picierno, che «sull’Ucraina tiene una linea di difesa senza se e senza ma», sia dell'ardimento del signor Aldo Grasso, che ci ricorda come «Per non dare tregua ai vili, quegli europei consapevoli di non essere “patetici parassiti” devono scongiurare con fermezza la resa».
Allo scopo di convogliare tutto e tutti sull'obiettivo della guerra, ecco quindi che anche la «Resistenza è patrimonio della nazione, non di una fazione»; men che mai di quei “pericolosi autocrati” dei comunisti. Tutto e tutti per la guerra.
Data articolo: Mon, 31 Mar 2025 06:00:00 GMTIl presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva, ha lanciato un duro attacco al leader del regime neonazista di Kiev Volodymyr Zelensky e all'Unione Europea, accusandoli di aver aggravato il conflitto in Ucraina invece di perseguire una soluzione diplomatica. Le dichiarazioni, rilasciate durante una conferenza stampa ad Hanoi, in Vietnam, hanno riacceso il dibattito sul ruolo della comunità internazionale nella guerra tra Kiev e Mosca.
Lula ha rivelato di aver ricevuto una richiesta di colloquio da Zelensky e ha espresso la speranza che il presidente ucraino sia ora più disposto a cercare un accordo. "Spero che ora sia preoccupato per la pace, perché fino a questo momento non lo era", ha affermato. "Pensava che Putin dovesse semplicemente accettare le sue condizioni. Ma nessuno può imporre la propria volontà agli altri".
Il leader brasiliano ha sottolineato che un negoziato sarebbe la soluzione migliore non solo per Ucraina e Russia, ma per l’Europa e il mondo intero. "Se le due parti sono disposte a dialogare, si potrà evitare un’ulteriore escalation", ha aggiunto.
????????????????Lula aborda conflito ucraniano e faz duras críticas a Zelensky e à UE
— RT Brasil (@rtnoticias_br) March 29, 2025
O presidente afirmou que Zelensky não está preocupado com a paz, observando ainda que, ao focar no rearmamento, o bloco europeu está "jogando fora" seus valores democráticos.
Leia: https://t.co/pWU9gNgkQX pic.twitter.com/YYkrejmspi
Particolarmente dure le critiche all’Unione Europea, accusata da Lula di aver abbandonato il suo ruolo di promotrice di pace per abbracciare logiche militariste. "L’UE è sempre stata un monumento alla democrazia, ma ora rischia di distruggere questa eredità", ha dichiarato, riferendosi al piano ReArm Europe presentato dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen.
Il progetto, che prevede investimenti per 800 miliardi di euro nella difesa comune, è stato giustificato da Bruxelles con la necessità di rispondere alle minacce globali. "Viviamo tempi pericolosi", aveva avvertito von der Leyen. Ma per Lula, questa corsa al riarmo rappresenta un pericolo: "L’Europa rischia di dover finanziare la guerra, sostenere la NATO e poi ricostruire un continente devastato".
Nel frattempo, il presidente russo Vladimir Putin ha ribadito la sua disponibilità a collaborare con qualsiasi Paese disposto a mediare, a patto che vengano garantite la sicurezza della Russia e una soluzione duratura. Una posizione che contrasta con le richieste del regime di Kiev, che esclude qualsiasi cessione territoriale.
Le parole di Lula riflettono le divisioni a livello globale: da un lato, i guerrafondai occidentali sostenitori di un maggiore sostegno militare all’Ucraina, dall’altro chi, come il Brasile e i paesi del Sud del mondo, spinge per una via diplomatica. Con il conflitto ancora lontano da una risoluzione, la pressione per un negoziato sembra destinata a crescere.
Data articolo: Sun, 30 Mar 2025 16:48:00 GMT